L’identità centroafricana

Sommario: Premessa. Introduzione. 1. Dimensione cosmica. 2. Dimensione antropologica: 2.1. L’individuo; 2.2. Il gruppo e la fraternità. 3. Gli strumenti della pace: 3.1. I riti d’iniziazione; 3.2. La preghiera; 3.3. Il dialogo. Considerazioni conclusive.

Abstract. L’Africa colpisce per la consistenza del tempo e delle azioni. L’universo non è solo un composito, un dato di leggi fisiche e matematiche, ma è alleanza: vale a dire che in esso c’è vita, amore, comunione. Ogni cosa, ogni ente, ha una sua forza, un suo segreto, un suo messaggio, un suo valore. L’individuo non è concepibile se non come proiezione di un noi. Essere uomo significa essere-con-la-vita, la quale vita lo lega al suo clan, ai suoi antenati, a Dio. L’africano è preso dall’ebbrezza della vita che sempre vuole attingere e comunicare come gioia, come dono, come grazia. Le genealogie, molto in uso nella cultura africana, indicano che nessuno è la propria origine e che, pertanto, la vita di ognuno è una tradizione, una comunione. Dono dell’uomo al mondo, il linguaggio vela quest’ultimo più che rivelarlo, diventa schermo di significati oggettivati; per questo il profondo senso degli altri, la solidarietà tribale, familiare e umana, inducono l’africano a comporre i dissidi mediante la contrattazione e il dialogo. Il dialogo è il modo di vedere chiaro in se stessi e negli altri. È lo strumento della chiarezza. Il confronto dell’africano è una ricerca d’equilibrio individuale e sociale. Un membro che soffre, fa soffrire tutto il corpo.

Premessa[*]

«Il baricentro politico ed economico sembra progressivamente spostarsi dall’Atlantico al Pacifico ed Europa e Africa devono interrogarsi sul proprio futuro e su quale ruolo esse siano chiamate a svolgere […] Il continente africano rappresenta il partner naturale per l’Unione Europea: l’altra faccia di una stessa medaglia. Abbiamo bisogno gli uni degli altri. Non comprenderlo adesso ci porterebbe a constatare, fra qualche anno, di essere stati silenziosamente, ma inesorabilmente, relegati alla periferia del pianeta.

Al contrario, africani ed europei, insieme, possono fare dei due continenti una vasta e integrata regione, stabile politicamente, dinamica economicamente e vibrante culturalmente […] Un’area al centro delle dinamiche globali.

Nel ventennale della scomparsa di un grande Padre dell’Africa, Léopold Sédar Senghor, risuona l’attualità della sua evocazione profetica di un gemellaggio spirituale dei due continenti.

Africa ed Europa, con le loro rispettive esperienze, storicamente uniche, di integrazione continentale, sono chiamate a farsi promotrici di un rinnovato multilateralismo, forti di un condiviso umanesimo, con al centro dell’azione politica, a livello nazionale e internazionale, l’uomo e la sua aspirazione a vivere con dignità in società più eque, più inclusive, più sostenibili.

Dalla logica rivendicativa alla base dell’avvio del dialogo Nord-Sud, che caratterizzò gli anni ’70 del secolo scorso, si tratta di passare alla elaborazione di un ambizioso progetto comune»[1].

Agli autorevoli auspici del discorso presidenziale rispondono «scarsa igiene, caos apocalittico, auto e motorini attorcigliati in gomitoli di traffico impenetrabile, strade allagate alla minima spruzzatina, immensi mercati coloratissimi e stracolmi di gente e bancarelle, caldo soffocante […]

Ci ha colpito Lomé, ci ha colpito parecchio, ma non per tutti questi aspetti più o meno prevedibili e immaginabili […] ci ha colpito per la consistenza del tempo e delle azioni. Ogni ora ci sembrava mezza giornata, ogni azione ci sembrava riprodotta a rallentatore, trascorreva una mattina e ci sembrava fossero passati tre giorni […] assurdo […] difficilissimo da spiegare […]

Quest’aspetto magico, affascinante e soprattutto rilassante si è intensificato notevolmente arrivati al piccolo villaggio di Atigba […] Lì abbiamo avvertito ancora di più quella bellissima sensazione […] un paradiso traboccante di rapporti umani profondi, indissolubili, confortanti, ma carente, purtroppo, di quegli aspetti pratici indispensabili per condurre un’esistenza che non è solo sopravvivenza: istruzione, igiene, cibo sano e vario, acqua potabile, gestione dei rifiuti, tecniche più avanzate per coltivare e curare i campi […]

Pensando alla nostra parte del pianeta e paragonandola all’Africa, non possiamo non notare che il dislivello è troppo, è davvero troppo. Noi occidentali siamo sommersi dal progresso, dal consumismo sfrenato, da un mercato sempre più nutrito di prodotti nuovi e innovativi. E loro? Loro lottano ogni giorno per riuscire almeno a riempire un piccolo secchio d’acqua grazie alla pioggia tanto apprezzata e attesa […] Loro vivono alla giornata senza pensare minimamente a cosa faranno o dove andranno la settimana successiva. Loro non riescono nemmeno ad immaginare lontanamente cosa ci sia aldilà della linea ipotetica che separa le due facce delle terra»[2].

Sono le parole di Ilaria Caserini e Marco Marannino, membri dell’Associazione di Volontariato Oikos; descrivono il campo di lavoro vissuto nel 2004 in Togo. Il racconto si focalizza sul confronto tra il tenore di vita della nostra parte del pianeta e l’Africa, quale indice estremo di diseguaglianza e profonda ingiustizia, e urgente suona il monito: «ci deve muovere un acuto senso di urgenza. Perché il tempo dell’Africa è adesso»[3], tuttavia la ricerca delle cause e le possibili complesse soluzioni esulano dalla presente trattazione.

Ciò che ora interessa è cogliere attraverso alcune dichiarazioni la continua contemporaneità di quello che alcuni occidentali hanno – sin dal 1800 – chiamato il male d’Africa. Non una nostalgia per una natura più o meno incontaminata, non il desiderio di rapporti umani immediati privi di sospetto, ma bensì un diverso modo di vivere il tempo. Vivere il tempo, e non essere vissuti dal tempo.

Scrivono i volontari dell’Oikos: l’Africa «ci ha colpito per la consistenza del tempo e delle azioni. Ogni ora ci sembrava mezza giornata, ogni azione ci sembrava riprodotta a rallentatore, trascorreva una mattina e ci sembrava fossero passati tre giorni […] assurdo […] difficilissimo da spiegare»[4]. Certo, al di là delle espressioni, vi è il fascino d’una vita a misura d’uomo, e la consapevolezza che il nostro occidente è privo di un tale bene o lo possiede in una modalità insufficiente e depotenziata.

E così in questo approccio all’identità africana con valori che infine sentiremo non diversi dai nostri, ma presenti in misura qualitativa diversa, come provocatorio disvalore vorrei iniziare con un invito al silenzio interiore. L’invito al silenzio implica che la parola non è tutto nell’uomo. L’averlo dimenticato ha generato nella nostra cultura una logomachia, una logorrea, una ventosa loquacitas[5] che si è poi convertita in razionalità pretestuosamente onnicomprensiva ed esaustiva nella fissità oggettiva e oggettivante della parola scritta.

Tuttavia l’esperienza del silenzio non è semplicemente tacere, non è nemmeno la repressione della parola nel momento in cui ho tante cose da dire, ma la consapevolezza della relatività di ogni parola umana, dunque della sua imperfezione: non c’è parola o concetto che possa esprimere tutta la realtà.

Gli oracoli veterotestamentari consapevoli di tale inadeguatezza la accentuano innanzi all’inenarrabile trascendenza e ammoniscono: «sileat omnis caro a facie Domini»[6], «silete a facie Domini Dei, quia iuxta est dies Domini»[7]. Ma pure in ogni uomo c’è qualcosa di ineffabile, di inesprimibile, di cui posso essere consapevole solo nel silenzio, nella consapevolezza del mio dire inadeguato, inesaustivo.

Vorrei concludere questa premessa citando il Codice D, il Codex Bezae Cantabrigensis. È una frase non accolta nella tradizione Vulgata della Bibbia; si trova nel vangelo di Luca. Dice il testo con il laconismo straordinario della κοινὴ ἑλληνική: Gesù passeggiava con i suoi nei campi di Galilea e, «vedendo uno che lavorava di sabato gli disse: “[ἄνϑρωπε, μακάριος εἶ;] uomo, se sai quello che fai sei beato, se non lo sai, sei maledetto e trasgressore della Legge”»[8]. Il brano si colloca all’interno della disputa: il sabato è per l’uomo e non l’uomo per il sabato, ma a noi interessa il verbo sapere: «se sai […] se non lo sai». Ignorare è fonte di maledizione; sapere, conoscere è condizione di gioia, di serenità, di beatitudine.

Ci interroghiamo spesso sulla convivenza tra uomini provenienti da diverse culture, ma, se riflettiamo senza preconcetti di sorta, avremo il privilegio di sapere che la pacifica convivenza è aspirazione e bene condiviso pur variegato nelle sue concezioni; avremo il privilegio di sapere che unendo l’intelletto con il cuore e con l’azione contribuiremo a superare le diffidenze e le differenze. «Tutto questo ha una particolare valenza nel nostro tempo, perché quella che stiamo vivendo non è semplicemente un’epoca di cambiamenti, ma è un cambiamento di epoca. Siamo, dunque, in uno di quei momenti nei quali i cambiamenti non sono più lineari, bensì epocali; costituiscono delle scelte che trasformano velocemente il modo di vivere, di relazionarsi, di comunicare ed elaborare il pensiero, di rapportarsi tra le generazioni umane e di comprendere e di vivere la fede e la scienza»[9].

Introduzione

In Africa, quando due parenti o amici s’incontrano, sovente si salutano in questo modo: «hai tu la pace? […] Tuo padre ha la pace? […] Tua madre ha la pace? […] Le persone della tua casa hanno la pace? – La pace solamente»[10].

Una tale maniera di salutare indica sufficientemente quanto la cultura e l’animo africani siano impregnati di pace. L’evidente propensione alla pace che si nota tra le popolazioni africane trova la sua spiegazione in quella visione unitaria del mondo propria della tradizione religiosa e culturale dell’Africa[11], secondo cui c’è convergenza, armonia, sintonia e integrazione tra Dio, l’universo e l’uomo.

Dipendente da una tale concezione del mondo come tripartito, la pace è una realtà ampia, ricca e complessa che include una serie di relazioni e rapporti concentrici che vanno dall’uomo, all’universo e a Dio. Pertanto, un discorso sulla dimensione valoriale della pace nell’identità africana dovrà svilupparsi lungo due direttrici maggiori: quella cosmica e quella antropologica, che permetteranno di scoprire la varia terminologia che sottintende la pace, e in corrispondenza a tale duplice dimensione si potranno evidenziare i mezzi, gli strumenti messi in opera per mantenere o ristabilire la pace.

1. Dimensione cosmica

La pace è un bene iscritto nell’universo, è una grazia cosmica, inerente all’ontologia stessa centro-africana che è unitaria, per cui c’è ordine, e quindi pace, quando tutto converge verso questa unità. «L’universo è una rete di forze diverse che sono l’espressione delle virtualità racchiuse in Dio, sola forza reale […] L’ontologia negro-africana è unitaria: l’unità dell’universo si realizza in Dio mediante la convergenza delle forze uscite da Dio e ordinate a Dio»[12]. Questa convergenza di forze diverse genera tra le cose una simpatia universale, cioè una consostanzialità, una fraternità di tutti gli esseri viventi e non viventi. La pace è legata, appunto, alla salvaguardia di questa simpatia cosmica.

Una tale concezione tende a indicare che l’universo non è solo un composito, un dato di leggi fisiche e matematiche, ma è alleanza: vale a dire che in esso c’è vita, amore, comunione. Ogni cosa, ogni ente, ha una sua forza, un suo segreto, un suo messaggio, un suo valore[13].

Da qui nasce l’entusiasmo, l’ottimismo dell’africano che esalta la propria giovinezza d’anima; «questo rispetto innato per l’uomo e il creato, questa gioia di vivere, questa pace, che non è certo deformazione dell’uomo, imposta e subita per igiene morale, ma è armonia naturale con la gioiosa maestà della vita»[14]. La pace è l’armonia, il ritmo della vita che vanno sempre rinnovati, ritrovati e riespressi. Perciò l’africano rincorre a perdifiato questo «ritmo eterno», questo «gustare la vita come un’esperienza sempre nuova», facendo attenzione a non perdere mai il controllo del proprio destino che si trova nel «tutto integrale»[15].

«L’originalità delle religioni tradizionali africane consiste nella celebrazione permanente della vita. L’uomo essendo impegnato in una lotta che oppone continuamente la vita e la morte, deve assicurare, in modo duraturo per sé e per i suoi, la vittoria della vita […] Minacciato nella sua esistenza e nei suoi beni egli cerca gli alleati della vita, per guadagnarli alla sua causa e assicurare la propria sopravvivenza»[16].

La pace passa, quindi, tra le mani dell’uomo, perché l’uomo è il destino dell’universo; è la ricapitolazione del cosmo e dell’umanità[17]. In modo incrociato si può parlare di cosmomorfismo dell’uomo e di antropomorfismo del cosmo. «L’uomo è nel mondo e non fa che uno con lui. Infatti, la relazione dell’uomo con il contesto geografico e biologico non è di natura opposizionale: lungi dal separarsi dall’ambiente, l’uomo non fa che uno con lui; lo nomina, lo anima. Il mondo non ha alcun che di uno spettacolo estraneo o di un sistema di percezioni; è piuttosto un contesto di segni motivati o simboli. In questo cosmo costruito in unità e in totalità, l’uomo diventa un traduttore di segni […] Questo complesso uomo-mondo, uomo che occupa nel mondo un posto privilegiato sfocia in una ominizzazione dell’universo»[18].

Grazie a questo orientamento dell’universo verso l’uomo, questi diventa il moderatore, il direttore d’orchestra dell’armonia, dell’ordine e dell’equilibrio del tutto, e adempie questo suo compito con il continuo raggiustamento della propria esistenza alla sintonia dell’universo: si realizza così l’integrazione o solidarietà cosmica[19]. Questa operazione di riconciliazione avviene mediante i riti, la danza, la musica e l’arte plastica[20].

È soprattutto nella ritualità che la simpatia, cioè questo «intensissimo sentire insieme», questo «vicendevole assumere», acquista il suo significato più profondo. In tal modo l’uomo «diventa l’anima delle cose senz’anima, la parola delle cose senza voce; egli è nel contempo terra, fuoco, aria e acqua, è corpo e spirito, è microcosmo nel cuore del macrocosmo»[21].

Ne risulta, in ultima analisi, una responsabilità determinante dell’uomo nei confronti dell’ordine dell’universo, e quindi della pace cosmica: è la sua quota di partecipazione all’ordine fondamentale del cosmo[22]. Ciò esige dall’uomo fedeltà e chiaroveggenza. Egli deve essere fedele al reale, fedele cioè alle forme e alla verità delle cose. Ma questa fedeltà, a sua volta, non è possibile senza una giusta comprensione dell’universo, che comporta l’intuizione delle presenze che lo abitano e delle solidarietà che lo costituiscono; si tratta di un universo vissuto e non di un sistema di concetti[23]. In questa prospettiva, la pace va intesa come una pregnante realtà esistenziale, e non certo come un sistema, vale a dire come ideologia. La pace sta nell’uomo, nelle cose, nell’universo e nel mondo di Dio.

2. Dimensione antropologica

Si tratta ora di vedere come l’uomo vive questa esperienza di pace sia a livello individuale che comunitario. In altre parole, si vorrebbe cercare di descrivere la fenomenologia della pace nella società africana retta dalle tradizioni ancestrali.

2.1. L’individuo

Innanzi tutto è da notare come nella cultura africana è assente la nozione individualistica dell’uomo[24]. «L’individualismo e l’isolamento sono estranei alla tradizione filosofica negro-africana»[25]. E ciò è vero, sia dal punto di vista giuridico, sia, e ancor più, dal punto di vista esistenziale.

Sul piano del diritto ancestrale l’individuo ha responsabilità unicamente all’interno del gruppo. Nei rapporti esterni la responsabilità è assunta interamente dal gruppo; e ciò sempre in rapporto con un altro gruppo, mai con individui isolati. Ne consegue che una violenza fatta a una persona, investe tutto il gruppo a cui questa persona appartiene[26]. Il costante coinvolgimento del gruppo ha come benefica conseguenza la tendenza a comporre i conflitti in maniera amichevole, diretta.

Ma è soprattutto sul piano esistenziale che l’individuo non è concepibile se non come proiezione di un noi. Essere uomo significa essere-con-la-vita, la quale vita lo lega al suo clan, ai suoi antenati, a Dio[27]. Il legame di comunione, il filo su cui corre la pace, è ancora la vita. L’africano è preso dall’ebbrezza della vita che sempre vuole attingere e comunicare come gioia, come dono, come grazia[28]. Le genealogie, molto in uso nella cultura africana, indicano che «nessuno è la sua propria origine» e che, pertanto, la vita di ognuno è una «tradizione», una comunione[29].

L’atteggiamento di fronte alla vita è dunque: di accettazione e di partecipazione.

L’accettazione serena della vita riguarda «tutte le realtà ineluttabili, sia penose (schiavitù, segregazione, sevizie, disprezzo, discriminazione, ogni sorta di disonestà), sia liete (nascita, matrimonio, amore, amicizia, cooperazione onesta)»[30]. Questa è la ragione che spiega l’atteggiamento dell’africano più incline a subire la violenza che esercitarla, più incline a soffrire che a far soffrire: «un negro fa sempre proprie le sofferenze di tutti i negri ivi comprese quelle degli antenati»[31].

La partecipazione della vita parte da Dio «il Partecipabile impartecipato»[32], per estendersi al gruppo e al mondo intero. «La vita dell’individuo è recepita in quanto partecipata. Il membro della tribù, del clan, della famiglia sa che non vive della sua propria vita, ma di quella della comunità. Sa che staccato dalla comunità non avrebbe più i mezzi per esistere; sa soprattutto che la sua vita è una partecipazione a quella dei suoi ascendenti, e che la sua conservazione, il suo rafforzamento ne dipende continuamente»[33].

L’amore stesso si definisce in rapporto alla vita, e sboccia con la primaria opzione dell’uomo per la vita contro la morte. È questo tipo d’amore che dà un senso al destino umano e alla storia[34]. L’amore «è prima di tutto accoglienza di sé per mezzo di sé. Davanti alla meraviglia del proprio avvenimento, l’uomo non ha che una scelta: accettarsi o rifiutarsi. Accettarsi è optare per la vita e nascere all’amore»[35].

Quindi, il binomio amore-vita è il principio che sorregge il mondo e l’umanità preservandoli dalla distruzione. Il principio amore-vita «è il fondamento della morale e la base incrollabile su cui posa l’universo»[36]. L’orizzonte della vita accolta in se stessa come amore, è il punto di riferimento costante della pacifica esistenza delle popolazioni africane.

2.2. Il gruppo e la fraternità

L’io profondo dell’africano, la sua psico-fisiologia è costituita dal «bisogno incoercibile di comunione»[37]. «Perché noi siamo, e perché, al di là della menzogna coloniale, noi vogliamo essere uomini di verità, siamo nel contempo i soldati dell’unità e della fraternità»[38].

Questa congeniale tensione alla coesione e alla comunità ha un legame essenziale con l’essere e con il vivere, giacché «vivere, è esistere in seno alla comunità, è partecipare alla vita sacra – e ogni vita è sacra – degli antenati»[39]. «La causa formale della coesione tra i membri della comunità bantu non è altro che la relazione di essere, di vita, di parentela, tra i discendenti e gli ascendenti, e per estensione una relazione analoga tra tutti coloro che adoperano gli stessi mezzi esistenziali e una relazione similare tra tutti quelli e i loro mezzi vitali»[40].

La comunione o partecipazione vitale si concretizza in molteplici modi. In primo luogo viene la solidarietà che è un punto variamente interpretato. S’intende la solidarietà come «l’integrazione dell’universo nella famiglia o, forse più esattamente, la dilatazione della famiglia alle dimensioni dell’universo»[41], oppure, in una prospettiva più strettamente umanistica, si considera la solidarietà come la convergenza di Dio, degli spiriti, degli esseri inanimati e animati, verso l’uomo inteso essenzialmente come comunitario[42]. Ancora, si vuole la solidarietà far capo all’uomo, incarnarsi in lui, come persona che porta in sé l’umanità totale, come persona che è «società, popoli e nazioni»[43]. La solidarietà potrebbe considerarsi come una radicale applicazione della legge dei tutti per l’uno e dell’uno per tutti, secondo il principio di reciprocità limitatamente gratuita: io aiuto l’altro ad essere se stesso, affinché anch’egli possa, poi, liberamente aiutare.

Luogo privilegiato dell’applicazione della solidarietà è la famiglia intesa nel senso africano più ampio. Infatti la famiglia elementare (padre, madre e figli) non esiste mai isolatamente, ma è indissolubilmente unita alla tribù, al clan, alla società e alla comunità intera. La natura della famiglia africana è quella di essere aperta, proiettata in estensione a cerchi concentrici[44]. La famiglia allargata è, dunque, lo spazio privilegiato della solidarietà, il campo della pace, il luogo degli incontri più vasti e dei dialoghi più diversi. Senza questa realtà della famiglia allargata, l’umanità africana non sta in piedi; si sbriciola, si autodistrugge. Perché la famiglia è «l’ambiente vitale», il «centro dell’unità», in cui «si realizza lo sforzo di unificazione e di integrazione dei frammenti del cosmo», nonché «la circolazione della vita e dei mezzi vitali»[45]. In quest’ottica si può affermare che: «estesa nella sua dinamica socio-mistica, la famiglia africana costituisce una tappa verso la grande famiglia umana, ed è questa connotazione di fraternità universale tra tutti gli uomini che costituisce il messaggio etico-antropologico dell’Africa all’umanità. È questo spirito di grande famiglia umana che fonda la leggendaria solidarietà e ospitalità africane. Qui non c’è posto per l’individualismo, per il capitalismo sfruttatore, per la xenofobia, per il razzismo\tribalismo, per la guerra, ecc., almeno in via di principio»[46]. I benefici che una famiglia così concepita arreca alla pace sono molteplici e innegabili: essa conduce a più dell’armonia sociale e politica; fa fare l’esperienza degli altri, «un altruismo senza dubbio fondato sui legami di sangue, ma che annienta l’egoismo naturale»[47]; la solidarietà famigliare è un sostegno nella sofferenza e nel bisogno durante tutta la vita.

Oltre che nell’ambito della famiglia allargata, la solidarietà e la comunione si manifestano anche mediante la condivisione dei beni. Nella società tradizionale africana la vita è possibile unicamente come «comunità di proprietà»[48]. Nella tradizione degli antenati, «nessuno viveva nella privazione, privo di cibo o di dignità umana, col pretesto che non aveva ricchezze personali; ciascuno poteva contare sui beni che possedeva la comunità di cui era membro»[49]. Ora, quando si riesce a fare il salto dal questo è mio al questo è nostro, o meglio ancora questo è di tutti, si è già tolta una delle cause di conflitto.

L’ospitalità è egualmente un segno caratteristico di solidarietà e di condivisione. La concezione dell’ospitalità, d’altronde, fa parte essa stessa dell’ontologia africana. Ogni uomo è «uomo-con-me», è un alleato, è sacro, inviolabile perché viene da parte di Dio. Lo sconosciuto che viene da altri orizzonti non è un estraneo ma un ospite, e va accolto con sommo rispetto, poiché potrebbe recare con sé una grazia, un messaggio che vengono magari da molto lontano, forse dagli antenati, forse da Dio[50]. Pertanto, il sentimento primario è più spontaneo nell’africano in occasione della visita di qualcuno, anche se del tutto sconosciuto, non è di rifiuto o di ripulsa, ma di aperta cordiale accoglienza.

Infine, nella linea dell’apertura verso l’altro, nella cultura africana troviamo parimenti il senso della tolleranza. Le religioni tradizionali africane sono fortemente regionalizzate, strettamente legate, cioè, ad un determinato ambiente, una determinata terra, un dato cielo e una data società. Ora, in religioni così localizzate non c’è spazio per il proselitismo, ma, al contrario, vi è una grande tolleranza per ogni credenza religiosa, anzi c’è tolleranza per ogni diversità comunque essa si presenti[51].

L’africano è profondamente tollerante anche grazie alla sua «grande capacità di pazienza opposta alla volontà di potenza e ciò che essa comporta di aggressività […] C’è, sopra ogni cosa, l’amore nel desiderio di conservare la saggezza ancestrale»[52]. In forza della tolleranza, non esiste l’ideologia del nemico, dell’uomo ostile per natura ad una altro uomo[53]. «Il vero socialismo africano non considera una categoria di persone come suoi fratelli e un’altra come suoi nemici naturali. Non fa alleanza con i fratelli per sterminare i non-fratelli»[54].

È possibile ammettere che l’orientamento congenito alla pace dell’africano, è sostenuto da una struttura (fraternità, solidarietà, famiglia, condivisione, ospitalità, tolleranza) che va alle radici stesse dell’essere umano, là dove risuona l’appello ineffabile al sublime miracolo della vita. Qui nasce il postulato della pace.

3. Gli strumenti della pace

 La pace come vita, fraternità, solidarietà e condivisione, è un valore che deve essere insegnato e appreso, è un bene da mantenere e riconquistare nel caso in cui sia stato manomesso. A questo fine la cultura africana conosce tre grandi strumenti: i riti d’iniziazione, la preghiera, il dialogo.

3.1. I riti d’iniziazione

I riti d’iniziazione, o di passaggio, sono una grande scuola di comunità e di apprendimento dell’ordine che governa l’universo e la convivenza umana.

Nell’esperienza spirituale dell’iniziazione, il candidato impara a ordinare la sua vita secondo i comandamenti tramandatigli dall’antenato nel nome di Dio. L’iniziazione comporta un’intensa esperienza comunitaria nella quale il candidato si percepisce uomo in quanto membro di una collettività, si conosce come individuo il cui vero posto è in seno alla comunità. Acquisisce in tal modo quella dimensione comunitaria di sé che lo rende disponibile agli appelli del gruppo[55].

L’iniziazione si sviluppa lungo diverse tappe che comprendono «una formazione morale, una educazione sociale e una formazione filosofica dell’adolescente destinata a fargli prendere coscienza del posto dell’uomo nell’universo»[56]. Durante l’iniziazione il candidato apprende la saggezza ancestrale e le leggi della perfezione e dell’ordine che consiste nel «adattare il ritmo cosmico al ritmo sociale»[57] e a vivere comunitariamente evitando ogni individualismo e isolamento.

 3.2. La preghiera

La preghiera in Africa è sempre una grande veglia di pace, del mantenimento di essa o della sua ricomposizione. La preghiera è, innanzi tutto, un tempo di giusto inserimento nella storia affinché essa si mantenga in quel corso che fu tracciato da Dio.

Il tempo non è utilizzato, quanto piuttosto vissuto per la ricomposizione, il rifacimento di quelle rotture dell’armonia dell’insieme che possono essersi prodotte nella vita quotidiana. La preghiera è appunto questo grande momento della riconciliazione. La preghiera africana si può definire «come una realtà di dono totale di sé in un abbandono non meno totale di sé all’Alterità onnipotente […] del Tutto-Altro»; è, quindi, una somma esperienza di «comunione-vivente-con». In questo senso, la preghiera africana rimane profondamente umana, in quanto «tende a rendere la vita umana degna di essere vissuta, e a fare più ‘calorose’ le relazioni tra gli uomini»[58].

L’arte è egualmente un rito, una preghiera, una scuola di pace. L’arte plastica, ma soprattutto la musica e la danza, «costituiscono per eccellenza l’esercizio spirituale che purifica, esorcizza, addolcisce l’anima e il corpo, per renderli docili all’azione dello Spirito […] Tutta l’arte africana porta un solo e unico messaggio: l’appello dell’uomo alla ricerca della sua salvezza»[59].

Ovvero l’africano cerca protezione, cioè liberazione dal timore e dalla paura, prosperità e integrazione alla sua comunità: ebbene è proprio questo desiderio di felicità e di pace che ispira tutta la sua preghiera che riveste, così, una altissima risonanza umana[60].

3.3. Il dialogo

L’essenza trasparente del linguaggio è presente nell’evanescenza della parola parlata, nel cancellarsi immediato della parola alata[61], della parola pronunciata che significa l’oggetto o il significato designato. Noi che ora vediamo le parole scritte quando le pronunciamo, difficilmente possiamo immaginare il potere di riferimento che abita una lingua le cui parole entrano in immediata consonanza con la realtà stessa. Se è vero che la ricchezza del linguaggio consiste dunque nella povertà del suo significare l’essere, del suo abbandono all’essere, comprendiamo che, quando il parlante si abbandona interiormente all’oggetto significato, il suo ascoltatore entra correlativamente in consonanza con tale stesso oggetto.

Dono dell’uomo al mondo, il linguaggio vela quest’ultimo più che rivelarlo, diventa schermo di significati oggettivati; per questo il profondo senso degli altri, la solidarietà tribale, familiare e umana, inducono l’africano a comporre i dissidi mediante la contrattazione e il dialogo; e cioè col confronto diretto tra le parti in causa, senza bisogno di intermediari[62].

Questo tipo di dialogo è ben noto sotto il nome di palabre, che consiste in un lunghissimo e lentissimo discorrere dei responsabili, degli anziani e di tutto il gruppo del villaggio. La palabre offre la possibilità e l’occasione di critica e autocritica fatte di fronte a tutta la comunità. Questo tipo di «dialogo è il modo di vedere chiaro in se stessi e negli altri. È lo strumento della chiarezza. Il confronto dell’africano è una ricerca d’equilibrio individuale e sociale. Un membro che soffre, fa soffrire tutto il corpo»[63].

Considerazioni conclusive

 Concludendo questa panoramica breve e parziale – stante le premesse – potremmo chiederci – a mo’ di sintesi – quali elementi possiamo ricavare attorno alla pace nell’identità africana, tali da costituire un messaggio per altri popoli, altre culture, quali siano i nessi esistenti o auspicabili integrabili nel contesto occidentale: tentiamo di spigolarne alcuni.

Il nostro studio ci ha permesso di evidenziare, innanzi tutto, la serietà con cui viene presa in considerazione l’intera creazione. Pace con la natura, pace con le singole realtà, pace con il mondo.

Anche se la percezione delle energie divine, presenti ovunque come forze di comunione, non può essere paragonata alla conquista scientifica del cosmo, essa contiene quantomeno uno stimolo ad utilizzare la scoperta conoscitiva dell’universo per migliorare le condizioni di vita e d’azione dell’uomo. Vi scorgiamo, in modo tutto particolare, la risonanza presente nell’umanità attuale di un cammino della storia verso una riconciliazione globale, un orientamento verso una sintesi umana universale.

Abbiamo messo in risalto come il vivere per gli africani sia vivere in comunità. Conta sommamente la fedeltà alla comunità passata e presente. E quando si dice comunità, s’intende anche una terra, una località, un villaggio.

Vi è inoltre la tensione ad allargare la comunità all’orizzonte dell’umanità intera. La prospettiva è quella di una terra e una umanità. Ci pare di dover cogliere in tale ottica l’idea di una grande οἰκουμένη: la terra come villaggio di tutti, come casa comune per un’umanità fraterna, una sola famiglia allargata, appunto come ci è stato dato di intravedere. In questa visione è facile risentire la grande nostalgia che pervade l’umanità per l’unità e la fraternità di tutto il genere umano.

Costante è il riferimento agli antenati, che mantiene viva nell’africano la memoria delle proprie origini e della propria storia. È il desiderio, la volontà di restare ancorati alle radici della propria identità. Anche qui è agevole annotare il beneficio che arrecherebbe alla pace universale, la memoria delle origini – i diritti umani come fonte del retto, del giusto e del vero – non come semplice nostalgia, ma come intenzione, come progetto-appello che sta sempre dinanzi all’umanità.

L’analisi ha poi rilevato, oltre alla tolleranza – che indubbiamente rimane il primo gradino indispensabile all’umana convivenza –, l’importanza data alla vita come festa. È questo un aspetto che richiama spontaneamente il concetto dell’homo ludens: lo spazio da darsi all’attività inventiva e creativa, all’operosità gratuita, all’esperienza interiore e religiosa. Va parimenti evidenziata la valenza del dialogo come forza creatrice d’umanità.

Prima di chiudere è tuttavia doveroso chiedersi fino a che punto la tradizione religiosa africana, che abbiamo analizzato, resiste nell’impatto con la cultura occidentale. La risposta deve essere sfumata.

Non pochi elementi sono destabilizzati: diminuisce il senso della condivisione, vacillano alcuni cardini della famiglia, vien meno il rispetto per la natura, tramonta il valore dell’anziano, alla credenza in Dio subentra un relativismo religioso. Resistono però quelli che si possono chiamare i pilastri della religione ancestrale, ovvero si constata una reviviscenza della religiosità popolare che riprende le forme tradizionali: la presenza dell’antenato, la credenza nelle energie vitali e nelle forze occulte, la struttura tribale e l’importanza della comunità e della fraternità.

Al termine di queste riflessioni gli auspici iniziali nel loro proseguo si trasformano – intelligenti pauca – in sofferente monito: «In Africa come in Europa la sfida non è soltanto legata alla tutela dell’ambiente, ma riguarda anche i sistemi economici e le società nel loro complesso […] La sfida riguarda la possibilità di una trasformazione epocale, che consentirà di creare nuove opportunità economiche per le decine di milioni di giovani africani che, da qui al 2050, quando la popolazione dell’Africa supererà i due miliardi di abitanti, si affacceranno sul mercato del lavoro.

Un modello di crescita endogeno e integrato, rispettoso dell’ambiente e delle persone, rappresenta la migliore risposta a incontrollati e spesso rovinosi fenomeni migratori che, se nell’immediato possono apparire tormentati e fragili rimedi nei confronti di una pressione demografica in crescita impetuosa e offrono, con le rimesse di emigranti, un contributo finanziario ai Paesi d’origine, nel lungo periodo privano questi di loro importanti energie, finendo per incidere negativamente sulle loro possibilità di sviluppo.

Anche in tale ambito Europa e Africa sono chiamate a fare di più, nel segno di una collaborazione aperta, efficace, sincera, laddove le posizioni siano distanti, ma sempre rispettosa e costruttiva.

Il fenomeno migratorio deve essere governato a vantaggio di tutti. Diversamente ne saranno travolti, insieme, le ragioni dell’umanità e gli ordinamenti statali»[64].

Ludovico Allegretti

ludovico.allegretti@unisanpaolo.org

10 ottobre 2021, San Daniele Comboni[65]

[*] L’autore ha tenuto corsi presso alcuni istituti universitari e la Chaire UNESCO des droits de la personne et de la démocratie dell’Université d’Abomey Calavi (UAC) della Repubblica del Benin; i soggiorni, ma soprattutto l’Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla Conferenza ministeriale “Incontri con l’Africa”, Roma 8 ottobre 2021, hanno suggerito il presente studio.

[1] Intervento del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella alla Conferenza ministeriale “Incontri con l’Africa”, Roma 8 ottobre 2021, in https://www.quirinale.it/elementi/60146 (consultato il 10 ottobre 2021).

[2] I. Caserini – M. Marannino, Campo di lavoro in Togo, in  http://www.oikos.org/campi/ReportVolontari/togo04.htm (consultato il 3 gennaio 2020). Al presente il link è https://www.oikosvolontariato.org/.

[3] Intervento del Presidente…

[4] Caserini – M. Marannino, Campo di…

[5] Cfr. Bernardus Claravallensis, Sermones super Cantica Canticorum, 58, 3, 7.

[6] Zac. 2, 13.

[7] Soph. 1, 7.

[8] Ms D ad Ev. Lc. 6, 4, in M. Pesce, Le parole dimenticate di Gesù, ed. M. Pesce, Farigliano di Cuneo 2004, p. 81. «Questo detto, testimoniato solo dal codice D, si aggiunge ai testi che rispecchiano la discussione dei primi cristiani sull’osservanza del sabato […] Il sabato non può essere trasgredito per interessi materiali; non si può lavorare di sabato se si crede che la legge biblica sia valida. Per lavorare di sabato ed essere nel giusto, bisogna conoscere un principio più alto» (ibidem, p. 588).

[9] Francesco PP, Discorso alla Curia Romana per gli auguri di Natale, 21 dicembre 2019, in https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/december/documents/papa-francesco_20191221_curia-romana.html (consultato il 10 ottobre 2021).

[10] L. S. Senghor, Psychologie du négro-africain ou conscience et connaissance, in A. J. Smet, Philosophie africaine, Textes choisis, ed. A. J. Smet, Kinshasa 1975, 1, p. 32. A Léopold Sédar Senghor, senegalese, si devono i primi validi tentativi di sintesi della cultura africana e della sua specificità in rapporto a quella europea.

[11] È necessario tenere presente che, in Africa, cultura e religione s’identificano e non c’è, quindi, dicotomia tra anima e corpo, tra sacro e profano, tra uomo e cosmo, tra tempo e eternità.

[12] L. S. Senghor, De la négritude, in Smet, Philosophie africaine…, p. 21.

[13] Cfr. B. Njom, Prière biblique et prière négro-africaine, «Bulletin de théologie africaine», 1981, 3, 6, p. 205. Nyom afferma che ogni cosa ha una sua propria funzione in rapporto all’uomo e all’universo per il mantenimento del «benessere» del mondo, funzione che egli chiama «mediazione universale» (ibidem, p. 208).

[14] A. Diop, Niam M’Paya, in Smet, Philosophie africaine…, 2, p. 270. Diop è il fondatore della rivista «Présence Africaine» e dell’omonimo movimento con lo scopo di far conoscere nel mondo i valori africani.

[15] A. Mabcna, Philosophie africaine, in Smet, Philosophie africaine…, 1, p. 222.

[16] M. Kayitakibga, Le dialogue avec les religions traditionnelles africaines, «Bulletin», Secretariatus pro non christianis – Roma, 1984, 19, 3, p. 342.

[17] Cfr. E. Mveng, L’art d’Afrique noire, liturgie cosmique et langage religieux, «Bulletin de théologie africaine», 1979, 1, 1, p. 100.

[18] L.-V. Thomas – R. Luneau – J. Doneux, Les Religions de l’Afrique Noire. Textes et traditions sacrés, Paris 1969, p. 13.

[19] Cfr. J. Goetz, Spiritualité chez les primitifs, in A. Ravier, La mystique et les mystiques, Paris 1965, pp. 552-557.

[20] Cfr. Kayitabga, Le dialogue…, p. 342.

[21] Mveng, L’art d’Afrique…, p. 192.

[22] Cfr. Goetz, Spiritualité chez…, p. 558.

[23] Cfr. L. Le Sousberghe, À propos de la «philosophie Bantoue», in Smet, Philosophie africaine…, 2, p. 295.

[24] Cfr. E. L. Bono, L’idea di persona nella filosofia africana contemporanea, Università degli Studi di Bergamo – Facoltà di Scienze della Formazione, Dottorato di Ricerca in Scienze Pedagogiche, a. a. 2010-2011, in https://aisberg.unibg.it/retrieve/handle/10446/852/1651/Tesi%20di%20Dottorato%20di%20Ezio%20Lorenzo%20Bono.pdf (consultato il 10 ottobre 2021).

[25] I.-M. Tshiamalenga Ntumba, La vision ntu de l’homme. Essai de philosophie linguistique anthropologique, in Smet, Philosophie africaine…, 1, p. 168.

[26] Cfr. P. Alexandre, Droit, in G. Balandier – J. Maquet, Dictionnaire des civilisations africaines, Paris 1968, pp. 136 s.

[27] Cfr. I.-M. Tshiamalenga Ntumba, Une tradition philosophique africaine, «Bulletin de théologie africaine», 1984, 6, 12, p. 329. L’idea dell’Uno plurale e dell’unità della pluralità pare essere alla base di tutta la tradizione filosofica negra (cfr. ibidem).

[28] Cfr. N. Abanda, Le négrisme, ponction de la Négritude, in Smet, Philosophie africaine…, p. 50.

[29] A. Scarin, Les structures de la spiritualité des traditions religieuses africaines, «Revue africaine de théologie», 1983, 7, 14, p. 209.

[30] Abanda, Le négrisme…, p. 50.

[31] A. Franklin, La négritude: réalité ou mystification?, in Smet, Philosophie africaine…, 2, p. 301.

[32] V. Mulago, Ebauche philosophique, in Smet, Philosophie africaine…, 1, p. 19.

[33] P. Monsegwo, L’esprit communautaire africain, Kinshasa 1982, p. 5.

[34] Cfr. E. Mven, Essai d’anthropologie négro-africaine, «Bulletin de théologie africaine», 1979, 1, 2, p. 239.

[35] Ibidem.

[36] Ibidem.

[37] Senghor, Psychologie du négro-africain…, p. 37.

[38] A. Cesaire, L’homme de culture et ses responsabilités, in Smet, Philosophie africaine…, 1, p. 46.

[39] Monsegwo, L’esprit communautaire…, p. 6.

[40] Mulago, Ebauche philosophique…, p. 19.

[41] Senghor, De la négritude…, p. 37.

[42] Cfr. Nyom, Prière biblique…, pp. 209. 211. Nyom interpreta la solidarietà in senso salvifico, per cui tutto e tutti si tengono strettamente uniti affinché l’uomo e il mondo possano permanere perennemente e possano vivere sempre più in pienezza (cfr. ibidem, p. 211).

[43] Mveng, Essai d’antropologie…, p. 238.

[44] Cfr. Abanda, Le négrisme…, p. 51. Abanda dice esattamente che la famiglia africana «non è né triangolare, né equilaterale, è semicircolare quasi chiusa ma in posizione d’apertura, perché è condannata (condamnée) all’estensione».

[45] V. Mulago, Solidarité africaine et coresponsabilité chrétienne à la lumière de Vatican II, in Foi chrétienne et langage humain. Actes de la septième semaine théologique de Kinshasa, Kinshasa 1978, p. 133.

[46] I.-M. Tshiamalenga Ntumba, Philosophie et cultures africaines. Clarification et projet culturel de société africaine, «Bulletin de théologie africaine», 1983, 5, 10, p. 247. A dire il vero la solidarietà africana non è priva di ambiguità. Essa può infatti generare sia il parassitismo, quando è troppo condiscendente, sia il tribalismo, quando è troppo rigida (cfr. Abanda, Le négrisme…, pp. 51 s.; J. K: Nyerere, Ujamaa, ou le fondement du socialisme africain, in Smet, Philosophie africaine…, 1, pp. 257 s.).

[47] Abanda, Le négrisme…, p. 52. La famiglia costituisce un campo d’esperienze di solidarietà umana, seguendo un procedimento che va da cellula in cellule: la famiglia cellula della tribù, la tribù cellula della nazione, la nazione cellula della comunità umana la quale è la cellula della comunità universale di tutti gli esseri (cfr. ibidem).

[48] Mulago, Solidarité africaine…, p. 87.

[49] Nyerere, Ujamaa…, p. 256.

[50] Cfr. Tshiamalenga Ntumba, La vision, pp. 167 s. Una prova esemplare d’ospitalità è data ancor oggi in tutta l’Africa con l’accoglienza riservata ai profughi che sono molto numerosi in tutto il continente.

[51] Cfr. P. Mercier, Religion, in Balandier – Marquet, Dictionnaire…, p. 355.

[52] A. N’Daw, Peut-on parler d’une pensée africaine?, in Smet, Philosophie africaine…, 1, p. 232.

[53] Cfr. Tshiamalenga Ntumba, La vision, p. 168. Nella tradizione africana c’è tuttavia l’idea di un uomo che attraverso forze occulte può fare del male a un altro uomo. È un potenziale nemico che diventa tale, una volta che sia additato dall’indovino.

[54] Nyerere, Ujamaa…, p. 262.

[55] Cfr. A. Scarin, Appunti di teologia e spiritualità africane, «Studia Patavina», 1984, 31, 1, p. 196. I riti d’iniziazione mirano a integrare l’iniziato in un gruppo o in una categoria sociale; sono legati ai cicli vitali: l’inizio dell’adolescenza, il passaggio all’età adulta e la pubertà per le ragazze.

[56] N’Daw, Peut-on parler…, p. 231.

[57] Ibidem.

[58] Scarin, Appunti di teologia…, p. 197.

[59] Ibidem.

[60] Cfr. Thomas –  Luneau –  Doneux, Les Religions…, p. 335.

[61] «ἔπεα πτερόεντα»: Omero, Iliade, 1, 201; 2, 7; 3, 155; 4, 69. 92. 203. 284. 312. 337. 369; 5, 123. 242; 5, 713. 871; 7, 356; 8, 101. 351; 10, 163. 192; 11, 815; 12, 365; Idem, Odissea, 1, 122; 2, 269. 362; 4, 25. 77. 189. 550; 5, 116. 172; 7, 236; 8, 407. 442. 460; 9, 409; 10, 265. 324. 377. 418. 430. 482; 11, 56. 154. 209. 396. 472. 616; 12, 296.

[62] Cfr. Abanda, Le négrisme…, p. 53.

[63] Ibidem.

[64] Intervento del Presidente…

[65] Giovanni Paolo II, Omelia per la canonizzazione di 3 beati, 5 ottobre 2003, in https://www.vatican.va/content/john-paul-ii/it/homilies/2003/documents/hf_jp-ii_hom_20031005_canonizations.html (consultato il 10 ottobre 2021): «Tutti i popoli vedranno la gloria del Signore. Il Salmo […] sottolinea l’urgenza della missione ad gentes anche in questi nostri tempi. Sono necessari evangelizzatori dall’entusiasmo e dalla passione apostolica del Vescovo Daniele Comboni, apostolo di Cristo tra gli africani. Egli impiegò le risorse della sua ricca personalità e della sua solida spiritualità per far conoscere ed accogliere Cristo in Africa, continente che amava profondamente. Come non volgere, anche quest’oggi, lo sguardo con affetto e preoccupazione a quelle care popolazioni? Terra ricca di risorse umane e spirituali, l’Africa continua ad essere segnata da tante difficoltà e problemi. Possa la Comunità internazionale aiutarla attivamente a costruire un futuro di speranza. Affido questo mio appello all’intercessione di san Daniele Comboni, insigne evangelizzatore e protettore del Continente Nero».