Pandora e il vaso

Abstract. Il vaso di Pandora alimenta il coraggio per i beni che mancano, la costanza e la non rassegnazione per quelli che non ci sono; qualora queste ultime scomparissero, il processo pendente di un mondo dell’uomo e per l’uomo sarebbe perduto. La speranza è il bene restato agli uomini, per nulla già maturo ma per nulla annientato.

Mentre il passato con le sue disillusioni rassicura e il futuro madido di speranze angoscia, oggi, primo giorno di un anno nuovo, la riflessione è suggerita da Charles-Pierre Péguy (1873-1914).

«[La virtù] che preferisco, dice Dio, è la speranza.

La fede non mi stupisce. Non è stupefacente. Risplendo talmente nella mia creazione. Nel sole e nella luna e nelle stelle. In tutte le mie creature […] Nell’uomo e nella donna sua compagna. E soprattutto nei bambini. Mie creature […] Nella vallata quieta […] Nella formica mia serva. E perfino nel serpente […] Io risplendo talmente nella mia creazione. Che per non vedermi ci vorrebbe che quella povera gente fosse cieca.

La carità, dice Dio, non mi stupisce. Non è stupefacente. Quelle povere creature sono così infelici che a meno di avere un cuore di pietra, come non avrebbero carità le une per le altre. Come non avrebbero carità per i loro fratelli. Come non si toglierebbero il pane di bocca, il pane quotidiano, per darlo ai dei bambini disgraziati che passano. E mio figlio ha avuto per loro una tale carità […]

Ma la speranza, dice Dio, ecco quello che mi stupisce […] Questo è stupefacente. Che quei poveri figli vedano come vanno le cose e che credano che andrà meglio domani […] Questo è stupefacente ed è proprio la più grande meraviglia della nostra grazia. E io stesso ne sono stupito […]

Quello che mi stupisce, dice Dio, è la speranza. Non me ne capacito. Questa piccola speranza che ha l’aria di essere nulla. Questa bambina speranza. Immortale. Perché le mie tre virtù, dice Dio. Le tre virtù sono mie creature […] La Fede è una Sposa fedele. La Carità è una Madre […] La Speranza è una bambina da nulla [… Eppure] è questa bambina che traverserà i mondi. Questa bambina da nulla. Lei sola, portando le altre, traverserà i mondi compiuti […]

La fede va da sé. La fede cammina da sola. Per credere basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare. Per non credere bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Prendersi a rovescio, mettersi a rovescio, andare all’inverso. La fede è tutta naturale, tutta sciolta, tutta semplice, tutta quieta. Se ne viene pacifica. E se ne va tranquilla. È una brava donna che si conosce, una brava vecchia, una brava vecchia parrocchiana, una brava donna della parrocchia, una vecchia nonna, una brava parrocchiana. Ci racconta le storie del tempo antico, che sono accadute nel tempo antico.

Per non credere […] bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie. Per non vedere, per non credere.

La carità va purtroppo da sé. La carità cammina da sola. Per amare il proprio prossimo basta solo lasciarsi andare, basta solo guardare una tal miseria. Per non amare il proprio prossimo bisognerebbe violentarsi, torturarsi, tormentarsi, contrariarsi. Irrigidirsi. Farsi male. Snaturarsi, prendersi a rovescio, mettersi a rovescio. Andare all’inverso. La carità è tutta naturale, tutta fresca, tutta semplice, tutta quieta. È il primo movimento del cuore. E il primo movimento quello buono. La carità è una madre e una sorella.

Per non amare il proprio prossimo […] bisognerebbe tapparsi gli occhi e le orecchie. Dinanzi a tanto grido di miseria.

Ma la speranza non va da sé. La speranza non va da sola. Per sperare […] bisogna essere molto felici, bisogna avere ottenuto, ricevuto una grande grazia. È la fede che è facile ed è non credere che sarebbe impossibile. È la carità che è facile ed è non amare che sarebbe impossibile. Ma è sperare che è difficile […]

La piccola speranza avanza tra le sue due sorelle grandi e non si nota neppure. Sulla via della salvezza, sulla via carnale, sulla via accidentata della salvezza, sulla strada interminabile, sulla strada tra le due sorelle grandi, la piccola speranza. Avanza. Tra le sue due sorelle grandi. Quella che è sposata. E quella che è madre. E non si fa attenzione, il popolo cristiano non fa attenzione che alle due sorelle grandi. La prima e l’ultima […] E non vede quasi quella che è in mezzo. La piccola, quella che va a scuola. E che cammina. Persa nelle gonne delle sue sorelle. E crede volentieri che siano le due grandi che tirano la piccola per mano. In mezzo. Tra loro due […] È lei che nel mezzo si tira dietro le sue sorelle grandi. E che senza di lei loro non sarebbero nulla. Se non due donne già anziane. Due donne di una certa età. Sciupate dalla vita […]

Tirata, appesa alle braccia delle sue due sorelle grandi. Che la tengono per mano. La piccola speranza. Avanza. E in mezzo tra le sue due sorelle grandi ha l’aria di farsi trascinare […] E in realtà è lei a far camminar le altre due. E a trascinarle. E a far camminare tutti quanti. E a trascinarli. Perché si lavora sempre solo per i bambini. E le due grandi camminano solo per la piccola»[1].

Ogni sogno resta un sogno, non realizzato, non compiuto e tutto ciò che resta è il ricordo, che però mantiene la porta aperta. La porta semiaperta, quando sembra aprirsi su oggetti propizi, si chiama speranza. Non c’è speranza senza angoscia né angoscia senza speranza, esse si mantengono reciprocamente in sospeso, per quanto l’uomo aderisca maggiormente alla speranza. Comunque anch’essa, potendo essere ingannevole come un fuoco fatuo, deve essere una speranza sapiente, in se stessa ponderata in anticipo. La saga di Pandora afferma che la speranza è portata agli uomini da una donna, però in maniera demonica. Pandora è tenera come Pamina[2], seducente come Elena[3], ma inviata con intenzione malvagia; viene da Giove, che per mezzo suo vuole vendicarsi su Prometeo del furto del fuoco, una seducente immagine del bello in assoluto, ma con un insieme chiuso di doni pericolosi. Prometeo la respinge, ma suo fratello Epimeteo (᾿Επιμηϑεύς = colui che riflette a cose fatte) si lascia sedurre, e Pandora apre così il vaso che si era portata. Ora questo, secondo la versione che Esiodo ha dato della saga[4], conteneva l’esercito di mali che da allora è caduto addosso agli uomini: ne volarono fuori malattie, preoccupazioni, fame, cattivi raccolti. Solo da ultimo Giove, compassionevole, chiuse il coperchio, prima che ne fuggisse via anche la speranza. Questa è un’interpretazione contraddittoria; infatti la speranza, mediante la quale Giove voleva in fondo anche consolare della loro debolezza gli uomini creati da Prometeo, qui si trova tra quelli che sono chiaramente dei mali. Nella versione esiodea si distingue dagli altri mali solamente perché è rimasta nel vaso e dunque non si è diffusa fra gli uomini. Nella versione tramandata da Esiodo ciò non ha un vero e proprio senso, a meno che la speranza come male non si riferisca al suo lato ingannevole, e anche all’inanità che essa per sé sola ancora rappresenta. E così gli antichi avevano riprodotto Ἐλπίς tenera, piena di veli e in fuga, così gli stoici volevano lasciare dietro di sé le immagini della speranza proprio come quelle dell’angoscia e della paura. Questo è anche l’effetto dell’indimenticabile spes che Andrea Pisano (1290-1348) ha effigiato sul portale del battistero di Firenze: essa siede in attesa sebbene sia alata e, nonostante le ali, alza le braccia, come Tantalo[5], verso un frutto irraggiungibile. La speranza, che possiede se non il ricordo o il progetto, può apparire un male se vista dalla parte dell’incertezza, e la speranza ingannevole, infondata, lo è certamente; ma certo anche la speranza infondata non può essere classificata fra i consueti mali del mondo come se fosse la stessa cosa della malattia o del cruccio. A maggior ragione la speranza fondata, cioè mediata con ciò che è realmente possibile, è così lontana dal male, da rappresentare la porta almeno semiaperta, che sembra aprirsi su oggetti propizi, in un mondo che non è divenuto e che non è una prigione.

Quanto più passava il tempo, tanto meno gli antichi cercavano di liberarsi della speranza. Una versione più tarda, ellenistica (anche la Pandora di Johann Wolfgang von Goethe se n’è appropriata[6]), rappresenta la dote di Pandora non come un contenitore di infelicità, bensì al contrario come un contenitore di beni, in ultima analisi come vaso di misteri. Il vaso di Pandora è in questa versione Pandora stessa, cioè la omni-dotata, piena di attrattive, di doni, di offerte di felicità. Anche queste, secondo la versione ellenistica del mito, sono fuggite dal vaso, però, diversamente dai vizi, sono fuggite via proprio al completo e non si sono sparse fra gli uomini; come unico bene nel vaso è rimasta la speranza. Essa alimenta il coraggio per i beni che mancano, la costanza e la non rassegnazione per quelli che non ci sono, e se essa scomparisse il processo progrediente del mondo sarebbe perduto. Così la seconda versione del mito di Pandora è l’unica vera; la speranza è il bene restato agli uomini, per nulla maturo, per nulla annientato. La porta semiaperta su un’alba da avvento, attraverso cui sul piano soggettivo e oggettivo è indicata la speranza, è il vaso di Pandora dello stesso mondo incompiuto insieme alle intenzioni simboliche positive, che la latenza rappresenta. Con un simbolo storico, il più amabile che ci sia, il vaso si apre come la stanza profonda, calda, in cui arde la promettente luce del sentirsi a casa propria; con un simbolo paesistico, il più forte che ci sia, il vaso si apre come il vasto mare con le rosee nubi dorate mattutine all’orizzonte, come il sole, che non più lontano e nel pieno del giorno, va lodato. Entrambi i punti di vista sono la prospettiva della filosofia, che risponde alla speranza in maniera aperta e che è votata alla nuova terra del compimento dell’uomo.

Questo compimento si trova ancora in processo e nella sua tendenza si avvicina con gli elementi utopici dello stato finale di fronte al progredire, alla latenza. Le illusioni e i loro beni, che d’altronde non sono mai esistiti, sono fuggiti via dal vaso di Pandora, ma la speranza realiter fundata, per cui l’uomo può diventare uomo per l’uomo e il mondo patria per gli uomini, è rimasta. Il mondo in cui accadono le contraddizioni che seguitano a urgere, in cui sono realmente possibili la vita migliore, l’umanizzazione, il pro nobis, in cui è posto lo sviluppo e la possibilità di sviluppo in avanti. Del reale non si può mai pensare abbastanza bene e in grande; i suoi giorni, che sono anche i nostri, non hanno né sempre ugual numero e misura, né il loro peso già pieno. Non soltanto il movimento verso il compimento della realtà è antropico, come la contradizione, ma nella sua incompiutezza anche l’anticipazione è presentita e resa accessibile per opera della speranza, riprodotta dal concetto obiettivo-positivo di tendenza e di latenza di questa. Una tale dimensione aurorale non soltanto erompe sempre di nuovo sul piano storico-umano, ma qualifica e abbraccia anche il paesaggio del mondo fisico, che non è per niente solo quantitativo e ciclico. Anche qui, proprio qui, ci sono cifre della formazione di una patria, in mediazione con la storicità umana: la possibilità è obiettivo-reale. Il mondo dell’uomo per l’uomo – compito e missione della potenzialità fattiva più intensa del «magnum miraculum est homo»[7] o, per maggiori e profonde suggestioni, del «gloria Dei vivens homo»[8] – è colmo della tendenza del non-ancora verso la pienezza, dell’estraniato verso l’identità, del mondo circostante verso la patria. La speranza della meta è necessariamente discorde dalla falsa sazietà, necessariamente tutt’uno con la radicalità: ciò che è torto vuol divenire dritto, ciò che è metà vuol diventare pieno…

Ludovico Allegretti

ludovico.allegretti@unisanpaolo.org

1 gennaio 2022

 

[1] C.-P. Péguy, Le porche de la deuxième vertu, in Œuvres complètes, Paris 1917, 5, pp. 257-264; 266-271 (consultabile all’1 gennaio 2022 in http://archive.org/stream/oeuvrescomplte05pguoft#page/256/mode/2up e seguenti).

[2] Nel Il flauto magico, musicato da Wolfgang Amadeus Mozart nel 1791, Pamina è una giovane principessa, figlia della Regina della Notte, ed è innamorata di Tamino, che la libera dalle forze del male e la conduce nella beatitudine solare della luce iniziatica.

[3] Nata da un uovo deposto da Leda che si è congiunta con Zeus tramutatosi in cigno, Elena nella mitologia greca è presentata come la donna più bella del mondo antico, ma anche la più famosa, la più amata e la più odiata per essere stata causa della guerra di Troia.

[4] Cfr. Esiodo, Opera et dies, 54-105, in Hesiodi opera, ed. F. Solmsen, Oxford 1970. La traduzione del testo greco è tratta da Idem, Opere, ed. A. Colonna, Torino 1983, pp. 253-255: «Così disse, e si mise a ridere il padre degli uomini e degli dèi. Quindi comandò all’inclito Efesto di mescolar senza indugio della terra con acqua, e d’infondere in essa natura e vigore umano, cavandone fuori un grazioso incantevole corpo di vergine, simile nel volto alle dee immortali; poi comandò ad Atena di insegnarle la sua arte, di tesser cioè la variopinta tela; ed all’aurea Afrodite di versar tutt’intorno al suo capo la grazia, e la passione struggente, e gli affanni che fiaccan le membra; ed inoltre d’infondere in lei un animo sfacciato ed un costume volubile Zeus dette ordine ad Ermes, il messaggero Argifonte. In questo modo egli parlò; ed essi obbedirono al sovrano Zeus figlio di Crono. E senza indugio l’inclito Ambidestro plasmò con la terra una creatura simile a vereconda fanciulla, per volere del Cronide; la dea Atena dagli occhi splendenti le dette il cinto e gli ornamenti; attorno al suo collo le dee Grazie e Peito (la Persuasione) veneranda misero delle collane d’oro; le Ore dalle belle chiome la incoronaron con i fiori di primavera; ed attorno al suo corpo adattò ornamenti d’ogni specie Pallade Atena. Quindi nel suo petto il messaggero Argifonte ripose menzogne, e seducenti discorsi, e un carattere scaltro, per volere di Zeus dal cupo tuono; in lei infuse la parola il messaggero degli dèi, e chiamò questa donna col nome di Pandora, perché tutti gli abitatori dell’Olimpo dettero in regalo questo dono, sciagura per gli uomini che si nutron del pane. Quindi, quando ebbe realizzato l’arduo inganno fatale, il padre mandò ad Epimeteo l’inclito Argifonte, il messaggero veloce, per portare il dono degli dèi; ed Epimeteo non pensò a quanto gli aveva detto Prometeo, di non accettare rimandarlo indietro, affinché non accadesse qualche malanno ai mortali. Ma dopo averlo accettato, se n’accorse, quando già possedeva quel malanno. Dapprima infatti vivevan sulla terra le stirpi degli uomini, prive di mali, e prive del pesante lavoro, e delle malattie fastidiose, che recano agli uomini la morte. Ben presto difatti nel male i mortali invecchiano. Ma la donna, togliendo con la mano il grande coperchio dell’orcio, li fece disperdere; e così versò agli uomini dolorosi affanni. Sola, lì dentro, in quella dimora infrangibile, sotto l’orlo del vaso, restò la Speranza, e non poté volar fuori, dacché ella [Pandora] riuscì a metter prima il coperchio sul vaso, per volere del l’egioco Zeus adunatore di nubi. Invece le altre sciagure in numero infinito si aggirano in mezzo agli uomini; piena infatti è la terra di mali, e pieno pure il mare; le malattie giungono agli uomini, spontaneamente, di giorno e di notte, recando malanni ai mortali, tacitamente, perché il saggio Zeus ha tolto ad esse la parola. In tal modo non è assolutamente possibile sfuggire al disegno di Zeus».

[5] Tantalo, figlio di Zeus e di Plutide, fu re di Lidia o di Frigia, padre di Niobe e Pelope, che uccise per imbandirlo al banchetto degli dei; chiese vita uguale agli dei, rubò l’ambrosia e il nettare, rapì Ganimede e si macchiò di altre colpe. Tantalo nell’oltretomba è immerso nell’acqua presso alberi protendenti rami carichi di frutti, sempre affamato e assetato perché l’acqua si ritira e il vento solleva i rami.

[6] Nel tardo classicismo goethiano la bellezza di Pandora è medusea: impietrisce imponendo la propria immutabile perfezione.

[7] Ermete Trismegisto, Βίβλιος ἱερὰ πρὸς Ἀσκληπιὸν προσφωνηθεῖσα, 6, in Corpus Hermeticum, edizione e commento di A. D. Nock – A.-J. Festugière, edizione dei testi ermetici copti e commento di I. Ramelli, I. Ramelli (a cura di), Milano 2005, p. 522.

[8] Ireneo di Lione, Adversus Haereses, 4, 20, 7.