Beati quelli che non hanno visto e hanno creduto

Abstract. Il riconoscimento del Risorto come Gesù dipende dal riconoscimento di Gesù come risorto, cioè dalla disponibilità a integrare il Crocifisso nella rivelazione di Dio. La difficoltà a riconoscere il Risorto non va ascritta a una deficienza della visibilità, ma all’immaginario delle attese.

«Tommaso, uno dei Dodici, chiamato Didimo, non era con loro quando venne Gesù. Gli dicevano gli altri discepoli: “Abbiamo visto il Signore!”. Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il mio dito nel segno dei chiodi e non metto la mia mano nel suo fianco, io non credo”» (Gv 20, 24 s.).

Tommaso è il discepolo assente la prima ora, quindi una figura capace di interpretare la condizione di tanti altri che non possono godere della visione. L’annuncio pasquale degli altri apostoli innesca una dura protesta, poiché ogni altra parola dovrà fare i conti con l’eloquente ricordo del corpo devastato di Gesù. L’obiezione di Tommaso all’annuncio dei discepoli è a tutela di un’ermeneutica della croce che era valsa anche per loro e che adesso non deve essere banalizzata: come può essere preso sul serio l’annuncio di una vita che è già stata sconfitta dalla morte? Quanto accaduto al Golgota non è un fatto irrimediabile? Il realismo della croce può ospitare ancora una rivelazione che riguardi Gesù? Tommaso non è disposto a accogliere un annuncio che dissimuli l’onta della croce.

Ora, quel che Tommaso chiede – insinuando che si tratti dell’argomento che chiude il caso – è esattamente quel che preme a Gesù. L’invito a toccare – rivoltogli dal Risorto che prende l’iniziativa di venire – equivale all’invito a entrare nel significato delle stigmate della croce. La venuta del Risorto – che rilancia la possibilità di una relazione, per i discepoli prima, e per Tommaso poi – attiva una inversione ermeneutica: Gesù non chiede a Tommaso di rinnegare la sua memoria, ma di riscattarla dalla sua cattiva interpretazione. Il Crocifisso risorto conferma Tommaso – nel senso che non si dà una rivelazione altra oltre la croce -, ma ciò che Tommaso non aveva compreso era appunto la rivelazione della croce, secondo un significato diverso da quello supposto da Tommaso. La rivelazione pasquale, per un verso, non aggiunge nulla alla croce, poiché consiste nella piena manifestazione del suo rilievo teologico, già annunciato in Gv 13, 1: «Prima della festa di Pasqua, Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine». Non c’è più nulla da vedere; ma bisogna vedere tutto.

La protesta di Tommaso non è improntata a uno scetticismo snobistico; piuttosto, pone in evidenza un nesso ermeneutico fondamentale per cogliere la rivelazione pasquale. Tutto ciò che si vuol dire di Gesù dopo la sua morte deve fare i conti proprio con quella morte. Ed è appunto quanto il Risorto esige dal discepolo dubbioso: non di oltrepassare la morte, ma di penetrarne il significato reale. L’ermeneutica di Tommaso viene disincagliata quando riconosce che la croce viene integrata nella verità pasquale di Dio. Analogamente a quanto accadde alla Maddalena: giunge alla fede non quando guarda al Risorto come a un redivivo, ma quando riconosce che il mistero del Padre ospita tutta la storia di Gesù, nel fulcro della croce. Il vedere di Tommaso non si sostanzia solo dell’apparizione dell’ottavo giorno, poiché include la scena della croce e il dramma che l’ha preceduta. Per giungere alla fede è già necessario un credere che abbia la portata di un non-scandalizzarsi (cfr. Mt 11, 6)[1]. Allargando l’indagine ai Sinottici, la verifica in negativo è fornita dall’incredulità dei compaesani di Gesù (cfr. Mc 6, 1-6) e, in positivo, dal centurione di Cafarnao (cfr. Mt 8, 5-11), dalla Cananea (cfr. Mt 15, 21-28), dal lebbroso (cfr. Lc 17, 11-19), dalle donne e dal discepolo amato ai piedi della croce (cfr. Gv 19, 25-27). La rivelazione pasquale si sostanzia di tutta una storia, per vedere la quale occorre un credito affettivo che fa dello spettatore un discepolo: occorre una empatia, che si lascia istruire praticamente circa le implicazioni di ciò che va scoprendo. Se la fede è il nome di questa disponibilità, si deve dire che il vedere pasquale presuppone una fede, poiché la introduce al suo compimento, mediante l’inversione ermeneutica che restituisce a quella fede proprio la croce. Quando diciamo che coloro che hanno visto il Risorto non sono stati dispensati dalla fede (cfr. Mt 28, 71), non ci appelliamo a un atto generico di fiducia in Dio, quanto piuttosto al riconoscimento della valenza teologica della vita e della morte di Gesù. Davanti al Risorto si può ancora dubitare, poiché in forse non è che Dio esista, ma che Dio sia così: esposto alla nostra libertà e di fatto vulnerato. Una tale obiezione, comunque, non dipenderebbe dalla inconsistenza di ciò che si dà a vedere, ma dalle attese che intorbidano lo sguardo.

Nel testo evangelico non si dice che Tommaso si avvalga della possibilità di toccare: il riconoscimento del valore teologico della croce si rende autonomo dalla fisicità della visione. Nella beatitudine finale – «Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, tu hai creduto; beati quelli che non hanno visto e hanno creduto!”» (Gv 20, 29) – si afferma che la risurrezione è oggetto di fede, anche per chi vede; il vedere non esime dal credere: la semantica del vedere e la semantica del credere sono complementari e non alternative. La beatitudine che sigilla l’incontro con il Risorto non cela una commiserazione, visto che, per mezzo della scrittura dei segni di Gesù[2], anche noi veniamo abilitati a uno sguardo integrale, addirittura a una prospettiva che ha già superato la frammentazione dell’occhio distratto e il travaglio del disconoscimento. Se nemmeno a quelli della prima ora bastava l’immediatezza fisica a istruire lo sguardo, il riconoscimento della nostra dipendenza dalla testimonianza apostolica non squalifica di per sé il nostro vedere. Al nostro sguardo non manca nulla. Tranne il credere. Ma al vedere non si può chiedere di più[3].

La forma biblica del senso esibisce una dinamica implicativa, secondo la quale il vedere appella a una risoluzione a entrare nella scena già avviata. Senza questo coinvolgimento, si finisce presto o tardi per non vedere nemmeno più. Alla luce delle distinzioni operate, credere non è il titolo della sanatoria per rimediare a un vedere lacunoso e instabile; quanto piuttosto designa lo spazio della convocazione dell’interlocutore/lettore, a opera di una verità che non vuol valere per lui senza di lui. Vale già per i discepoli della prima ora che per credere bisogna vedere, e lo sguardo necessario alla fede deve integrare nella Pasqua la verità della croce, della cena che la anticipa e della storia che vi culmina; dunque si tratta di un vedere che si alimenta nella familiarità con Gesù, che è già una confidenza. In rapporto al vedere non più disponibile, il ruolo della testimonianza apostolica appare insostituibile, e in questo senso fondante. In modo specifico la mediazione testimoniale della comunità apostolica ci viene offerta da quel testo, la cui referenzialità rinvia alla storia di Gesù[4]. Il testo evangelico è preoccupato di istruire il lettore circa il cammino per giungere al riconoscimento della fede; riconoscimento che non termina al libro, poiché il libro non prende il posto della Presenza. Data l’affidabilità del libro dei segni, non solo siamo posti in una condizione omologa a quella dei discepoli, ma in un certo senso avvantaggiata (perciò beati), poiché ci viene indicata la prospettiva giusta – la buona ermeneutica – per cogliere la rivelazione di Gesù. Noi non disponiamo di un vedere dello stesso tipo di quello di Tommaso; però, chi ha scritto il libro dei segni ci risparmia la faticosa accumulazione dei dati, giacché li seleziona, disponendoli nella luce interpretativa adeguata. Vedere e credere sono reciprocamente interdipendenti, anche nelle apparizioni del Risorto. Il Gesù dei vangeli mette in atto una strategia di seduzione, il cui svolgimento si realizza nel vivo della corrispondenza del lettore. Il vedere designa il polo obiettivo della manifestazione; il credere ritaglia lo spazio riservato al consenso, alla implicazione del destinatario. La fede è un intreccio di riconoscimenti[5].

Considerate le numerose ricorrenze in proposito – i viandanti di Emmaus, Lc 24, 16; alcuni discepoli sul monte, Mt 28, 17b; la Maddalena, Gv 20, 14; e nel compendio di Mc 16, 11-14 -, come interpretare la difficoltà/fatica a riconoscere il Risorto? Rinunciando a spiegazioni naïf, che facciano ricorso a camuffamenti fisici, dobbiamo riconoscere che, sul piano narrativo, non si tratta di una vera e propria novità. Già per quanto riguarda il ministero pubblico, la folla e i discepoli faticano a vedere Gesù, nel senso di riconoscere la sua autorità, e ciò non per l’ambiguità del suo comportamento, ma per l’incongruenza del suo annuncio rispetto alle attese messianiche degli interlocutori (cfr. Giovanni Battista, in Mt 11, 2-6). Se dunque estendiamo il dispositivo della resistenza ai racconti pasquali – come emblematicamente rappresentato nell’apparizione a Tommaso -, dobbiamo concludere che la difficoltà a riconoscere Gesù dipende dalla resistenza a integrare la croce: la rivelazione di Dio disponibile nella croce di Gesù non è forse una clamorosa smentita dell’annuncio di Gesù?

Il riconoscimento del Risorto come Gesù dipende dal riconoscimento di Gesù come risorto, cioè dalla disponibilità a integrare il Crocifisso nella rivelazione di Dio (in conformità, del resto, a una pedagogia già avviata in rapporto ai gesti prodigiosi – cfr. Mt 4 e Lc 4 – e nella peculiare ermeneutica delle Scritture praticata da Gesù). Per un verso, il riconoscimento pasquale esige un credito supplementare rispetto alla sequela durante il ministero pubblico; per un altro, si deve dire che si tratta dello stesso credito[6], che non viene smentito dalla croce, poiché trova lì la sua sanzione insuperabile (cfr. la figura del centurione di Mc 15, 39, che può valere come controfigura di Tommaso). La novità della rivelazione pasquale non costituisce un incremento rispetto alla croce[7], in quanto attesta il pieno realismo teologale di essa (l’evento storico della trasfigurazione prefigura il dispositivo del riconoscimento pasquale). La difficoltà a riconoscere il Risorto non va ascritta a una deficienza della visibilità, ma all’immaginario delle attese.

Ludovico Allegretti

ludovico.allegretti@unisanpaolo.org

17 aprile 2022, Pasqua di Risurrezione

[1] Il plesso vedere-credere non è un circolo vizioso già nel corso del ministero pubblico di Gesù. Là il credere necessario ha il profilo di una conversione dell’immagine faraonica a una verità redentiva di Dio (cfr. Lc 4, 16-30; 15, 2; At. 10, 38), realizzata nelle parole e nei gesti di Gesù. Il momento forse più drammatico di questa rivendicazione è la polemica che culmina in Gv 5, 45-47; cfr. anche Gv 10, 33. Nel principio secondo cui la fedeltà alla memoria di (genitivo soggettivo) Gesù è indissociabile dal ricordo delle Scritture si istituisce una reciproca e asimmetrica dipendenza: c’è bisogno dell’AT per riconoscere il Nuovo (cfr. Gv 5, 39; Lc 16, 27-31. 24, 27).

[2] Cfr. Gv 21, 25: «Vi sono ancora molte altre cose compiute da Gesù che, se fossero scritte una per una, penso che il mondo stesso non basterebbe a contenere i libri che si dovrebbero scrivere».

[3] A dispetto di quel pregiudizio, tanto diffuso quanto deviante, secondo il quale vedere e credere si porrebbero in diretta alternativa (ciò che viene visto non può essere creduto). A monte di esso vige una concezione positivistica della verità, che configura il soggetto in una posizione di asettica neutralità, come semplicemente di fronte. Il superamento del paradigma speculare è imposto dall’oggetto: l’amore può essere riconosciuto/compreso solo da chi vi consente.

[4] Cfr. Gv 19, 35: «Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate» e 21, 24: «Questi è il discepolo che testimonia queste cose e le ha scritte, e noi sappiamo che la sua testimonianza è vera».

[5] Cfr. 1 Cor. 13, 12: «Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto»; Fil. 3, 12: «Non ho certo raggiunto la mèta, non sono arrivato alla perfezione; ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù».

[6] Con un ragionamento a parte post si può dunque inferire la logica del farsi-vedere non esibitorio da parte del Crocifisso risorto.

[7] È nella morte di Gesù che il velo del tempio si squarcia – cfr. Mt 27, 51 -, poiché l’assetto religioso viene definitivamente riposizionato sull’espiazione come atto di Dio.