Eurocentrismo è antropocentrismo

Abstract. L’omologazione del pianeta sui parametri culturali europei non va vista come l’effetto di una politica di imperialismo culturale posta in essere dal vecchio Continente (magari con forza coattiva), ma la riprova storicamente evidente dell’unità reale del genere umano, di cui la modernità ha preso consapevolezza.

Eurocentrismo è antropocentrismo[1]

Non c’è alcun dubbio che nella modernità solo i governanti democraticamente eletti siano quelli che possono rivendicare la piena legittimità del loro potere e questo per il fatto che la democrazia è ormai universalmente considerata come l’unica forma di governo naturalmente giustificabile. Questa osservazione, in sé e per sé assolutamente scontata, racchiude però un paradosso, dato che nessun’epoca, come la nostra, ha eroso l’idea che esista un’unica etica naturale, obiettivamente condivisibile da tutti gli uomini, indipendentemente da quanto li si possa differenziare sul piano religioso, politico, culturale. Il paradosso si può sciogliere in un solo modo, interpretando in modo rigidamente procedurale la logica della democrazia; il suo primato naturale dipenderebbe pertanto dal fatto che essa costituirebbe l’unico regime politico eticamente neutrale, e quindi capace di far convivere al proprio interno visioni del mondo dal punto di vista dei valori non solo diverse, ma addirittura contrapposte.

Ma in tal modo se si riesce (e per la verità in modo brillante) a giustificare la valenza universale che per molti possiede il modello democratico, gli si toglie nello stesso tempo però sangue e linfa. È che ogni regime politico (e quello democratico non fa eccezione) ha bisogno di una animazione valoriale; ma una democrazia meramente procedurale, volta formalmente a neutralizzare i valori conflittuali presenti nel tessuto sociale, convinta di avere il potere di conferire loro l’unico, possibile, legittimo fondamento, non può, pena la contraddizione, rinviare a sua volta a previ valori fondanti. Di qui una delle forme più sottili del malessere che pervade le coscienze democratiche in questi primi anni del nuovo millennio, nel momento in cui esse prendono atto della tragica fragilità di quel modello democratico che hanno contribuito con tanto entusiasmo a costruire e a diffondere.

Esiste un modo, profondamente sbagliato, di uscire da queste difficoltà: è la via del fondamentalismo: Contrariamente a quanto molti tuttora credono, il fondamentalista non è anti-democratico, ma post-democratico, così come il fondamentalismo non è affatto un paradigma regressivo, che guarda al passato, ma a suo modo (un modo aberrante, beninteso) progressivo, volto cioè a costruire un futuro. Per il fondamentalista, infatti, la verità etico-politica possiede un fascino talmente accecante, da non consentire che da essa ci si allontani, nemmeno in piccolissima parte; ma, nello stesso tempo, questa verità possiede un carattere universale cui ripugna ogni discriminazione: è una verità di tutti e per tutti. Un regime su di essa fondato non potrà che essere democratico, perché di principio ostile a ogni indebito privilegio, a ogni cristallizzazione di casta, di ceto, di classe, di etnia. Le grandi esperienze totalitarie novecentesche hanno avuto tutte connotati fondamentalistici, non da tutti però esattamente percepiti, a causa dello statualismo che a diverso titolo le hanno contrassegnate e che le hanno fatte percepire come processi essenzialmente ideologici. Il fondamentalismo dei nostri giorni non attribuisce invece alcuna particolare valenza al ruolo dello Stato nel processo storico, né quindi a quello dei movimenti collettivi. È il singolo che da esso viene interpellato e posto come assoluto protagonista della dinamica politica.

Possiamo a questo punto tornare a ripensare il rapporto tra l’etica naturale e la democrazia. Lungi dal farci correre rischi fondamentalistici, il rispetto per l’etica naturale può senza pericolo essere assunto come l’apriori del paradigma democratico, perché il portato di questa etica non ha per oggetto, per usare un’espressione cara a Dietrich Bonhoeffer (1906-1945), le cose ultime, bensì le cose penultime[2]. Il perseguimento delle cose ultime – cioè in definitiva della logica del senso e della fede, che sfonda i limiti del tempo e dello spazio – non può essere vincolativamente mediato dalla comunità politica con le sue leggi e attraverso le sue istituzioni: il non aver compreso questo punto costituisce il drammatico e a volte criminale errore del fondamentalismo. Ma il perseguimento delle cose penultime – cioè del bene temporale degli uomini – ben si addice alla politica e in particolare a quella forma di esperienza politica che è la democrazia, che affida per l’appunto alla libera responsabilità delle persone l’individuazione – sempre in qualche modo occasionale – degli obiettivi politici volta per volta preferibili. In questo contesto, sia l’universalismo fondamentalistico che il relativismo democratico appaiono per diverse ragioni aberranti e violenti: il primo perché cerca di ridurre a monofonia la ricchezza polifonica del bene, sacralizzando le cose profane; il secondo quando pretende di sottoporre a controlli procedurali opzioni radicali di vita, manifestandosi così ottusamente cieco di fronte a quell’obiettiva dimensione di bene e di valore che le cose profane portano con sé e che l’etica naturale consente a tutti di percepire perfettamente (come ben sapeva Jean-Jacques Rousseau, 1712-1778, quando definiva l’etica la scienza sublime delle anime semplici[3]).

Identificare implica percepire le differenze, dato che solo nel controluce della differenza è possibile percepire l’identità (in questo senso, osserva profondamente Friedrich Wilhelm Nietzsche (1844-1900), la conoscenza di noi stessi è possibile solo quando sappia presupporre quella dell’altro: «il tu è più antico dell’io»[4]). Quanto detto vale per qualsiasi dinamica identitaria: vale per gli individui come singoli, esattamente come vale per le collettività, per i popoli e per le culture. In un’epoca di migrazioni planetarie, come quelle del presente, che attivano innumerevoli conflitti identitari, sembra che l’Europa – pur avvertendo un acuto disagio – esiti nel riflettere sulla propria identità: l’adesione ad ingenue ideologie multiculturali attiva in molti la convinzione che il rispetto per le culture altre richieda il sacrificio o peggio ancora la negazione della propria cultura e che quindi l’Europa, per aprirsi al resto del mondo, debba minimizzare e al limite negare l’identità propria. Di qui la critica all’eurocentrismo che, tuttavia, è legittima, nei limiti in cui l’individuazione di una specificità della cultura europea induce a negare il dovuto rispetto per le culture altre e ad elaborare un’indebita gerarchia ideale tra i popoli, all’interno della quale spetterebbe ai popoli europei il primo posto. Ma una legittima critica all’eurocentrismo non deve indurre a ritenere superflui opportuni sforzi per l’individuazione della specificità identitaria dell’Europa.

Ogni cultura – ci spiegano gli etnologi – tende ad essere centripeta, ad affermare cioè se stessa in modo autoreferenziale: ogni cultura parla dei barbari, che per definizione, sono gli altri, coloro che parlano altre lingue, venerano altri dei, vivono secondo altre costumanze. Invece che la cultura europea è centrifuga e quindi fa eccezione a questo principio: la sua dimensione specifica consiste (paradossalmente) nel non essere eurocentrica, ma antropocentrica. Pur tra mille contraddizioni (alcune senza dubbio crudelmente violente), l’Europa non ha negato le altre culture, ma ha sempre teso a conoscerle e ad assimilarle, all’interno di un paradigma universalistico, al cui centro essa ha posto non l’uomo europeo, ma l’uomo tout court. È questo che ha reso e rende quella europea un unicum tra tutte le culture, pur non assicurandole nello stesso tempo alcun primato, perché ciò che l’Europa ha detto e dice di se stessa lo ha detto e continua a dirlo (sia pure, ripeto, tra innumerevoli contraddizioni) per tutti gli uomini di tutte le culture.

Questo antropocentrismo che caratterizza la cultura europea ha una radice complessa, a suo modo multiculturale: è nato dalla sintesi di tre grandi dinamiche, ciascuna delle quali – presa in sé per sé – non possiede connotati propriamente definibili come europei. Alludo allo spirito ebraico, a quello greco, a quello latino.

L’apporto di Gerusalemme alla cultura europea consiste nella trasformazione del senso del tempo (comune a tutte le culture) nel senso della storia, come temporalità aperta ed orientata. La storia viene elaborata dagli ebrei come avventura, nel senso etimologico del termine: gli uomini non aspettano inermi ed inerti gli eventi futuri, ma si aprono e si confrontano con loro, vanno loro incontro, orientandosi ed orientandoli. La storia è così sottratta alla casualità delle dinamiche fisico-cronologiche; si antropologizza, perché solo attraverso l’operare dell’uomo essa acquista un senso. Così comprendiamo che quando Abramo abbandona la sua terra e si pone in viaggio verso una meta che gli è stata indicata da Dio, ma che egli non è in grado di conoscere in anticipo, lo fa nello stesso tempo per ubbidienza e per fiducia; si gioca la propria vita in quella decisione e dà quindi alla propria vita una ragione, che si salda indissolubilmente col trascorrere del tempo storico. Analogamente, quando Mosè attiva l’esodo del popolo di Israele dall’Egitto, verso una terra promessa, che egli non sarà in grado se non di percepire da lontano, crea definitivamente il modello – che diventerà poi attraverso la rimeditazione cristiana della Bibbia tipicamente europeo – dell’homo viator, che pone la propria patria non nella terra, ma nel tempo e non nel tempo passato, ma nel tempo futuro.

L’apporto di Atene all’identità europea consiste nella percezione del logos. Per i Greci, il logos non fa riferimento solo alla ragione astratta e calcolante, coltivata mirabilmente già dai babilonesi, né si riduce alla pur affascinante ragione dia-logica, che diviene la condizione di possibilità delle contese dialettiche (da δια-λέγομαι) da essi tanto amate. Per i Greci percepire il logos indica piuttosto la percezione che la realtà abbia un fondamento stabile, che è nelle possibilità dell’uomo il conoscere e nella conoscenza consiste la sua dignità specifica. La sintesi della rivelazione cristiana con la filosofia greca ha prodotto un effetto dalla valenza storico-culturale incalcolabile: quel logos, cui già i Greci riconducevano il fondamento del reale, venne identificato non solo con l’unico Dio – processo già giunto a maturazione nei più alti esponenti della grecità -, ma con un Dio buono e provvidente. È qui che si è radicata la possibilità – altrimenti impensabile – della nascita della scienza. Nella prospettiva storico-culturale nella quale ci stiamo muovendo, per scienza dobbiamo intendere una delle principali manifestazioni (per alcuni addirittura la massima) dello spirito europeo: la fiducia in un progetto rigoroso, univoco, non esoterico né elitario di conoscenza del reale, basato su due presupposti di derivazione ebraico-greco-cristiana: a) che il reale sia vero e che possieda la verità di un cosmo e non di un caos, cioè che sia conoscibile, e b) che la conoscenza sia buona, in quanto conoscenza di una realtà creata da un Dio buono.

Se la storia viene da Gerusalemme, se il logos viene da Atene, da Roma proviene lo jus. Si tratta di una affermazione ben nota e costantemente ribadita. Ai nostri fini, però, una specificazione sul punto è necessaria. La gloria del diritto romano non consiste primariamente nell’elaborazione di una specifica competenza dottrinale, la jurisprudentia (anche se da un punto di vista strettamente storico si tratta di una acquisizione formidabile, alla quale i giuristi sono giustamente molto attaccati), ma in una forte affermazione di oggettività, per ciò che attiene al mondo del sociale, di pari rilievo dell’oggettività che sta alla base del mondo naturale. In questo propriamente consiste la scoperta dello jus. Come dimensione strutturale dell’esperienza umana, non esiste popolo o cultura che non abbia elaborato nella sua storia un proprio diritto. Appartiene invece esclusivamente all’idea romana di jus l’idea che il diritto abbia una propria oggettività e che quindi il giusto sia in sé e per sé stabile, esattamente come – nella visione cosmologica romana – stabile è finita per apparire Roma, l’Urbs, come centro politico, e non meramente etnico, del mondo civile. È elaborazione dei romani – per dir così dono dei romani al resto del mondo – l’idea che l’identità politica possa non avere fondamento nazionale e che la sovranità spetti di diritto a chi sia in grado di individuare e promuovere il bonum commune: nella tarda antichità essa è potuta appartenere a un ispanico come Traiano (53-117), a un africano come Settimio Severo (145-211), a un arabo come Marco Giulio Filippo Augusto (204-249), a un dalmata come Diocleziano (244-284), senza che la loro origine etnica avviasse alcuna contraddizione con la loro romanità. È che Roma è giunta a rappresentare simbolicamente il centro e il centro non può avere carattere etnico (perché etnia significa divisione); affermare l’esistenza di un centro è affermare la possibilità stessa di dare ordine politico, di giustizia e non quindi meramente fattuale, basato cioè sulla bruta forza, all’universo, a un universo nel quale tutti gli uomini possono essere a pari titolo coinvolti. La tensione ebraica per l’unificazione della storia, l’universalità astratta del logos greco trovano nell’universalismo romano la loro concreta e definitiva incarnazione: è solo nella civitas, nell’oggettività delle sue leggi, nella stabilità del suo ordinamento, che tutti gli uomini possono comunicare usando il linguaggio del diritto e postulando una soluzione oggettiva, perché basata sullo jus, alle loro controversie.

La storia, il logos e il diritto costituiscono quindi una sorta di trinità, che garantisce la comunicazione come presupposto e come obiettivo dell’humanum.

È nella comunicazione quindi che in definitiva va vista la complessa e multiforme radice della cultura europea. Si può comunicare solo tra soggetti che pensano di appartenere a una storia comune (la storia del genere umano); si può comunicare solo tra soggetti che ritengono di condividere un logos, cioè un linguaggio e una ragione comune; si può comunicare solo tra soggetti che possiedono nel diritto un centro comune di riferimento, non fisico-geografico, ma ideale: un luogo nel quale e per il quale gli esseri umani valgano come esseri umani, per ciò che li unisce (la titolarità di diritti fondamentali) e non per ciò che li divide. Questa logica comunicativa di alta complessità è la logica creata attraverso dinamiche plurisecolari dall’Europa. Ma è una logica che non parla dell’uomo europeo, ma dell’uomo tout court.

La comunicazione di cui stiamo parlando possiede un suo specifico e ineludibile nome: cattolicità. Chi si riferisce alla cattolicità tende per lo più a riferirsi all’esperienza non solo storica, ma dottrinale della Chiesa di Roma. Ma nel contesto del nostro discorso la cattolicità va intesa non in prospettiva confessionale, ma in prospettiva storico-culturale. La chiesa cattolica è stata storicamente la sintesi vivente di Gerusalemme, Atene e Roma, non per mandato esplicito e dogmatico del suo fondatore, ma per forza intrinseca del suo messaggio. Il cristianesimo ha unificato antropologicamente l’Europa, perché ha assunto e tenuto insieme il senso della storia, del logos e del diritto che Gerusalemme, Atene e Roma hanno contribuito sì a creare, ma che non sarebbero state in grado, ciascuna in sé e per sé, di manifestare come dimensioni di esperienza propriamente universale.

Eurocentrismo è antropocentrismo. Questa conclusione appare certamente irritante agli occhi di coloro che, nel nome di un pluralismo, se non di un relativismo culturale esasperato, non riescono a tematizzare un antropocentrismo che non abbia un carattere particolare. L’esperienza storica e spirituale dell’Europa va invece nella direzione esattamente contraria. Anche se nelle sue singole, specifiche etnie l’Europa manifesta una straordinaria varietà, nei suoi valori costitutivi l’Europa si è manifestata come un grandioso laboratorio metaculturale. L’omologazione del pianeta sui parametri culturali europei non va vista però come l’effetto di una politica di imperialismo culturale posta in essere dal vecchio Continente (magari con forza coattiva), ma la riprova storicamente evidente dell’unità reale del genere umano, di cui la modernità ha preso consapevolezza. L’Europa non può essere rappresentata come una cultura prodotta da uno spazio geografico precostituito (che fattualmente non esiste, come mostra il problema, non di poco conto, dell’eventuale integrazione della Russia nel progetto dell’Unione Europea), ma come uno spirito che ha creato il proprio spazio geografico e che continua ancora a crearlo. L’intuizione di Novalis[5], per la quale le altre parti del mondo attendono la riconciliazione e la resurrezione dell’Europa, per aderire ad essa e farsi concittadine del regno di Dio[6], resta – pur nel suo linguaggio così lontano dal nostro – dotata di una non comune penetrazione.

Ludovico Allegretti

ludovico.allegretti@unisanpaolo.org

4 novembre 2021, Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate

[1] L’identità dinamica di antropocentrismo e ecocentrismo sarà oggetto di ulteriori considerazioni, valorizzando la recente esortazione di Mario Draghi, Presidente del Consiglio dei Ministri, al Vertice dei Capi di Stato e di Governo dei Paesi del G20 celebrato a Roma dal 30 al 31 ottobre 2021 (M. Draghi, G20 Rome Leaders’ Declaration, Roma 31 ottobre 2021, in https://www.g20.org/wp-content/uploads/2021/10/G20-ROME-LEADERS-DECLARATION.pdf (consultato il 4 novembre 2021, p. 6, 17: «We will scale up and encourage the implementation of Nature-based Solutions or Ecosystem-based Approaches as valuable tools providing economic, social, climate and environmental benefits including in and around cities»), nonché l’auspicio di António Guterres, Segretario Generale dell’ONU, al Vertice dei leader mondiali – COP 26, Glasgow 31 ottobre 2021 – 12 novembre 2021 (A. Guterres, COP26 Climate Change Conference, Glasgow 1 novembre 2021, in https://www.un.org/sg/en/node/260423 (consultato il 4 novembre 2021: «On behalf of this and future generations, I urge you: Choose ambition. Choose solidarity. Choose to safeguard our future and save humanity»).

[2] Cfr. D. Bonhoeffer, Opere di Dietrich Bonhoeffer, 6, Etica, Brescia 1995, p. 125. La dottrina di Lutero e la sua rivisitazione barthiana avevano puntato tutta l’attenzione sulla grazia divina come evento di rottura nei confronti della storia e della natura, così da vedere il tempo preparatorio principalmente nel suo valore negativo: esso è il tempo della colpa, la cui redenzione può venire solo dall’intervento esterno di Dio. Non c’è su questa terra una via da seguire per giungere alla salvezza, non c’è un «metodo», qualsiasi via è in se stessa condannata: «fu necessario percorrere una via, fu necessario percorrere in tutta la sua lunghezza la via delle cose penultime, ognuno dovette cadere in ginocchio sotto il peso di tali cose — e tuttavia la parola ultima non fu poi il coronamento, bensì la rottura completa con il penultimo» (ibidem, p. 124). E tuttavia, osserva Bonhoeffer, «bisogna percorrere una via, anche se nessuna via porta a questo traguardo, ed essa va percorsa sino in fondo, cioè fin dove Dio le pone termine» (ibidem). Insomma «il penultimo continua perciò a sussistere anche se è completamente superato e abolito dall’ultimo» (ibidem). Vi è quindi un valore dialettico insito nelle realtà terrene: «bisogna ora parlare anche delle cose penultime, non come se esse avessero un loro proprio valore, ma per mettere in luce la loro relazione con l’ultimo. Per amore di questo bisogna parlare del penultimo (ibidem, p. 125). D’altra parte già la definizione di realtà penultima implica intrinsecamente il riferimento alla realtà ultima, dal momento che «una cosa diventa penultima solo attraverso l’ultima» (ibidem, p. 133). Pertanto «il penultimo va salvaguardato per amore dell’ultimo» (ibidem). In concreto due cose costituiscono le realtà penultime: «essere uomo ed essere buono» (ibidem, p. 138) cioè la dimensione naturale e quella etica, che sono state messe in crisi dal principio riformatore della sola gratia.

[3] Cfr. J. J. Rousseau, Discours sur les sciences et les arts, Paris 1964, 3, p. 30: «Ô vertu! Science sublime des âmes simples, faut-il donc tant de peines et d’appareil pour te connaître. Tes principes ne sont-ils pas gravés dans tous les cœurs, et ne suffit-il pas pour apprendre tes lois de rentrer en soi-même et d’écouter la voix de la conscience dans le silence des passions».

[4] F. Nietzsche, Così parlò Zarathustra, in F. Nietzsche, Opere, 6, 1, Milano 1986, p. 70.

[5] Nell’autunno del 1799 Novalis (pseudonimo di Friedrich Leopold von Hardenberg, 1772-1801) scrive il suo principale saggio ‘politico’ Die Christenheit oder Europa: un testo fondamentale, nel quale per la prima volta viene posto con intensità il tema delle radici dell’identità europea. Lette agli amici del circolo romantico di Jena, queste pagine attivarono reazioni di incomprensione, che giunsero fino al sarcasmo. Lo scritto, probabilmente anche per il giudizio negativo che su di esso diede Goethe, non venne dato alle stampe e bisognò attendere fino al 1826 per leggerlo, nella quarta edizione delle Schriften di Novalis. Le perplessità suscitate fin dagli inizi da questo testo sono quelle che continuano ancora oggi ad essere rilevate da molti lettori: Novalis si sarebbe lasciato muovere (e commuovere) da uno spirito nostalgico, dal rimpianto di un’epoca (il Medioevo), orientata cristianamente in tutte le sue manifestazioni, ma ormai irrimediabilmente trascorsa. Queste perplessità si traducono rapidamente in insofferenza ideologica e nella minimizzazione del valore di un testo, che, se correttamente letto, è invece realmente esemplare. Non in quanto occasione di rammemorazione pietosa di un lontano passato (che pure è in esse contenuta) vanno lette le pagine di Novalis, ma in quanto annuncio di un compito che spetta all’Europa, come portatrice della tradizione cristiana: un compito così ricco e complesso, che Novalis, pur intravedendolo, ha difficoltà ad esprimere in forma concettualmente rigorosa. L’Europa di cui egli parla ha una missione di riconciliazione universale dell’uomo con se stesso; ha il compito di giungere al definitivo ripudio della guerra e di instaurare una Friedensfest, una festa di pace; deve saper trascendere la gerarchia, «questa figura simmetrica fondamentale degli Stati», per realizzare una apertura al futuro, «nell’orgoglio dell’universale eguaglianza umana», nella «gioia del diritto personale (die Freude am persönlichen Recht) e… del potente sentimento dell’esser cittadino (das kraftvolle Bürgergefühl)». Cittadino europeo e insieme cittadino dell’intero universo: perché, conclude Novalis, «le altri parti del mondo attendono la riconciliazione (Versöhnung) e la resurrezione (Auferstehung) dell’Europa, per aderire ad essa e farsi concittadine (Mitbürger) del regno di Dio». Il linguaggio che usa Novalis certamente non è più il nostro; ma la sostanza del suo discorso mantiene una rilevanza, che non è lecito minimizzare.

[6] Cf Novalis, Die Christenheit oder Europa, in Novalis, Monolog, Hamburg 1963, p. 51.