Riflessioni in occasione del ritiro delle truppe straniere dall’Afghanistan

Sommario: 1. L’evoluzione storica della produzione giuridica. 2. Il continuum giuridico. 3. Il sovvertimento del continuum giuridico. 4. Non tacere le verità che danno senso alla vita.

Abstract. Il sovvertire la naturale evoluzione storica della produzione giuridica vulnera quella koinè antropologica di principi, idealità, valori, tendenze che è garanzia identitaria fondamentale di coesione e di unità di una determinata società. Il sostituire o l’intervenire sulla dinamica evolutiva d’un ordinamento giuridico è scardinare la natura stessa del corpo sociale e il diritto come forma storica di quel corpo. Il mos preesiste in linea di principio a ogni sua successiva formulazione e permane, come ciò che non può mai essere direttamente rinnegato, di contro a ogni legge e a qualsiasi altra forma normativa. Solo esso è propriamente lo ius civile che, in quanto diritto vivo ed eterno e sempre suscettibile di fecondi e coerenti sviluppi, contiene già e sempre in sé implicita la regola che il giurisperito ne ricava e affida poi alla libera, ma in generale conforme, sentenza del magistrato giusdicente. È dunque propriamente diritto civile quello che senza essere scritto è rintracciabile nella sola interpretazione dei giurisperiti. Le potenze colonizzatrici non elaborarono un nuovo diritto per gli ambiti a cui la consuetudine non si era mai estesa, e per i quali questa non offriva una base adeguata per una regolamentazione divenuta indispensabile, bensì esse esclusero l’applicazione del diritto consuetudinario in numerosi campi in cui esso esisteva, ma nei quali le sue regole non sembravano accettabili ai governi europei. La fede cristiana e la razionalità laica occidentale determinano la situazione globale come nessun’altra delle forze culturali. Ciò non significa però che sia lecito accantonare le altre culture, sarebbe una hybris occidentale. È importante per entrambe le grandi componenti della cultura occidentale aprirsi complementarietà, cosicché possa crescere un processo universale di chiarificazione in cui norme e valori essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare un potere efficace nell’umanità.

1. L’evoluzione storica della produzione giuridica

Il diritto non è mai soltanto un insieme di forme coartanti il divenire della vita sociale, un insieme di regole autoritarie a presidio del potere costituito, non è un artificio, ma possiede un significato ontologico affondando nelle scaturigini più intime d’una civiltà ed esprimendone radici e valori. Recuperare una visione del diritto come ordinamento d’ogni agglomerato sociale, affermare che ognuno di questi spesso nella realtà è un ordinamento giuridico primario, ha quindi un duplice significato: recuperare il diritto alla natura stessa del corpo sociale ed identificare il diritto come forma vitale di quel corpo nella storia[1].

E infatti unanimemente la dottrina distingue due modi di produzione del diritto: la consuetudine e la legge. La consuetudine è l’efficace regola derivante dal costume, la legge è il diritto che nasce dalla società attraverso l’intermediazione di un potere organizzato. La prima scaturisce dalla tradizione; la seconda nasce da una volontà dominante; l’una impersonale, l’altra personale o personificata. Non vi è società organizzata in cui questi due momenti della produzione giuridica non siano, in misura maggiore o minore, presenti.

Il prevalere della consuetudine o della legge distingue le diverse epoche giuridiche, i diversi tipi di società statale, i diversi tipi di ordinamento giuridico. La prevalenza della consuetudine caratterizza: le epoche primitive ove un potere centrale esiste, ma ha funzioni prevalentemente militari; Stati con molti centri di potere in concorrenza tra loro; ordinamenti decentrati, come l’ordinamento internazionale, in cui non esiste un organo centrale per la produzione di norme generali valide per tutta la collettività. Sinteticamente, la consuetudine si sviluppa e fiorisce ai margini o a dispetto o in mancanza di un potere centrale fortemente organizzato, là dove il potere centrale è limitato o debole o addirittura inesistente.

Tuttavia la consuetudine non è destinata a scomparire mai completamente, neppure nello Stato moderno fortemente accentrato e accentratore, giacché essa è un momento permanente di ogni ordinamento giuridico: ogni regola giuridica, quale che sia la sua provenienza, acquista efficacia attraverso la ripetizione costante dei comportamenti regolati. E infatti un ordinamento giuridico nel suo complesso è efficace solo se la maggior parte delle sue norme sono spontaneamente rispettate o fatte rispettare, se, in altre parole, si forma quella ripetizione costante, uniforme, generale di comportamenti conformi in cui consiste appunto una consuetudine. A lungo andare ovvero un ordinamento sopravvive solo se la maggior parte delle sue norme danno origine a consuetudini conformi. La consuetudine non è solo, secondo la massima di Paolo, «optima […] legum interpres»[2], ma è anche nutrice e alimentatrice della legge: la consuetudine oltre a interpretare la legge, la mantiene in vita. Quando alla legge manca l’appoggio di quel consenso tacito, in cui per lunga tradizione i giuristi hanno visto il carattere saliente della consuetudine, diventa lettera morta. Molto spesso la differenza fra diritto legislativo e consuetudinario consiste nel fatto che nel primo si forma in un primo tempo la regola astratta che viene poi convalidata dalla consuetudine, nel secondo prima la consuetudine che viene poi fissata in una regola astratta.

In questa prospettiva legge e consuetudine appaiono, più che due diversi canali di formazione del diritto, due momenti del fenomeno complesso della produzione giuridica[3].

Il sovvertire la naturale evoluzione storica della produzione giuridica – come è stata poc’anzi tratteggiata – vulnera quella koinè antropologica di principi, idealità, valori, tendenze che è garanzia identitaria fondamentale di coesione e di unità di una determinata società, «in quanto [le norme sociali] regolano […] la condotta dell’homo socius, dell’uomo cioè che vive e opera in rapporto con altri uomini [… e quindi in] una societas, vale a dire un’organizzazione, all’interno della quale esse hanno valore e dalla quale sono poste: ubi societas, ibi ius»[4]. Il sostituire o l’intervenire sulla dinamica evolutiva d’un ordinamento giuridico è scardinare la natura stessa del corpo sociale e il diritto come forma storica di quel corpo.

Le occidentali pretese di esportare manu militari ordinamenti e forme di governo in contesti socio-culturali a essi valorialmente estranei, distruggono la prosecuzione della vita del diritto di quei popoli o candidano la riviviscenza vigorosa dei precedenti regimi[5].

«L’Afghanistan, un Paese senza sbocchi sul mare definito da alcuni storici stranieri “cimitero degli imperi”, può aggiungere la fine della presenza di un’altra superpotenza straniera alla sua storia. Dopo la fine del dominio dell’impero britannico e dell’occupazione dell’Unione Sovietica, ora si chiude il ritiro degli Stati Uniti d’America, dopo vent’anni di invasione»[6].

È certo difficile comprendere che valori condivisi e propugnati nell’Occidente non rivestono il medesimo rilievo altrove, anche se quanto non doveva essere fatto venga proposto altrove: «La lezione è che bisogna impegnarsi fino in fondo, senza indicazioni di carattere politico, nell’utilizzo delle forze armate, nel rispetto dei nostri principi comportamentali dettati dalla democrazia, nel rispetto delle regole di ingaggio. Impegnarci quando siamo sicuri che possiamo ottenere qualcosa. Chiaro, dirlo adesso è molto facile. Vent’anni fa, quando siamo arrivati a Kabul, sembrava di poter aprire una nuova finestra, una nuova pagina di vita per questo paese. Non è facile fare questi apprezzamenti adesso, ma dobbiamo tenerne conto per il nostro impegno, sempre più serio, nel Sahel»[7].

La testimonianza che segue sembra la risposta opportuna al rilievo di poc’anzi: «Noorstani, 35 anni […] È stato colonnello dell’esercito nazionale afghano per molto tempo […] “Eravamo 350 mila soldati ben addestrati”, ricorda. “I talebani non avrebbero potuto farcela contro di noi. Abbiamo perso politicamente, non militarmente”»[8]: «la “politica di intervento militare sfrenato e di imposizione dei propri valori e sistemi sociali in altri Paesi è irrealizzabile ed è destinata al fallimento”»[9].

2. Il continuum giuridico

Il reale pericolo di letture deformate dall’ideologia sull’opportunità o meno di tali belligeranti interventi, se da una parte non può impedire il voler ribadire l’identità del diritto quale continuum della vita stessa della società civile nel suo divenire, dall’altra didatticamente obbliga a un’esemplificazione lontana dalle contemporanee animosità. Il rapporto dialettico evolutivo tra mos, consuetudine e legge riferito all’epoca romano-alto medievale potrà servire allo scopo.

L’antico costume fu sempre sentito a Roma come la fonte originaria e sostanzialmente unica del diritto, donde già implicitamente risulta il valore meramente sussidiario e quasi surrettizio concesso a ogni altra fonte normativa[10]. Il mos preesiste in linea di principio a ogni sua successiva formulazione e permane, come ciò che non può mai essere direttamente rinnegato, di contro a ogni legge e a qualsiasi altra forma normativa. Solo esso è propriamente lo ius civile che, in quanto diritto vivo ed eterno e sempre suscettibile di fecondi e coerenti sviluppi, contiene già e sempre in sé implicita la regola che il giurisperito ne ricava e affida poi alla libera, ma in generale conforme, sentenza del magistrato giusdicente. È dunque «propriamente diritto civile quello che senza essere scritto è rintracciabile nella sola interpretazione dei giurisperiti»[11].

La lex, invece, che viene approvata dal popolo riunito nei comitia centuriata e tributa, e nei concilia plebis tributa, è sentita piuttosto come una convenzione fra i cittadini intesa a precisare le circostanze e i modi d’applicazione d’una data regola del costume, ovvero a impedire, ma solo indirettamente, che una facoltà riconosciuta da quest’ultimo s’eserciti in determinate direzioni. Ma ciò è sempre e proprio per conseguire una migliore realizzazione dei principi del costume; e anche quando alla lex s’affiancheranno come fonti normative le delibere del Senato e del Principe di ciascuna delle quali può dirsi abbia lo stesso carattere prescrittivo della legge – ossia con gli stessi limiti e valendosi dei medesimi strumenti – sempre può dirsi d’ognuna d’esse che legis vicem optinet[12]. Persino Giustiniano – al di là del principio realizzato da Costantino e poi da Giustiniano stesso proclamato, dell’imperatore come legge vivente – volle considerare le proprie leggi, per quanto numerose, «come riforme rare e limitatissime [apportate, in base alla sua autorità] a quegli iura che, ricevuti in eredità dalla Roma classica, andavano nell’insieme osservati»[13].

Dove non basta più l’interpretatio del giurisperito – consistente nell’applicazione della regola del costume a nuove esigenze e nell’adattamento delle formule giuridiche tradizionali alla produzione degli effetti negoziali e processuali effettivamente voluti – là può intervenire la legge per introdurre rimedi contro l’abuso del diritto in senso stretto e nuovi strumenti di protezione giuridica. Ma la legge resta uno strumento essenzialmente eccezionale, che può integrare, ma non in linea di principio abrogare, il mos preesistente e neppure una legge anteriore; essa può solo tentare d’evitare, con la prospettiva di certe sanzioni, che ci s’avvalga d’una norma, che resta per altro perfettamente in vigore conservando intatta la sua efficacia[14].

Oltre a tale eccezionalità qualitativa, la legge fu anche quantitativamente rara, e lo divenne ancor più via via che s’impose lo ius honorarium o praetorium, e fu infine riconosciuto al magistrato non solo il potere d’interpretare estensivamente e anche analogicamente una norma ma addirittura, pur in presenza di questa, d’adottare un comportamento processuale più equo, ma non rintracciabile (formulae in factum conceptae) in quanto riguardante rapporti non riconosciuti in alcun modo da esso. Questo distanziarsi dello ius praetorium dallo ius civile condusse a un’attenuazione della distinzione fra ius e lex, poiché questa non si fondava sul potere discrezionale del magistrato giusdicente, ma su quello stesso consensus omnium – sia pure espresso occasionalmente col suffragio d’un’assemblea e non rebus ipsis et factis – in cui si radicava lo ius civile che, come la consuetudine, «senza alcun scritto il popolo approvò»[15].

Dopo l’editto di Caracalla del 212 il dissidio già in atto fra il diritto di Roma e i diritti provinciali finì col risolversi in un conflitto fra consuetudini locali e legge dell’Impero. Costantino si vide perciò costretto a sancire: «il rifarsi alla consuetudine antica non è ricorrere a un’autorità da poco, tuttavia non sino al punto da ritenere che essa s’imponga sempre con la propria cogenza, infatti sulla consuetudine deve prevalere o la ratio o la legge»[16]. Analoghe furono le prese di posizione intese a limitare la consuetudine da parte, ad esempio, di Carlo Magno; e tuttavia questa, per ben individuabili ragioni storiche, si diffuse e prevalse un po’ dappertutto, e non solo nell’ambito del diritto privato; anzi, la più grande costruzione consuetudinaria fu il feudo[17]. E ciò permette anche di distinguere il mos dei Romani dalla consuetudine che, almeno nel caso del feudo, non si fondò certo sulla sua accettazione per iudicio populi[18] grazie a una tacita civium conventio[19], ma solamente sulla volontà d’alcuni strati sociali politicamente influenti[20].

Solo alla Chiesa riuscì d’elaborare una compiuta teoria della consuetudine, dei suoi rapporti con la legge e dei limiti d’entrambe. Come principio s’assunse infatti da sant’Agostino che «in quei fatti di cui le Sacre Scritture non stabiliscono alcunché di certo, sono da considerarsi legge o le costumanze del popolo di Dio o le tradizioni degli antichi»[21]. Così Isidoro di Siviglia, in riferimento alla legge umana, pose un limite preciso non presente ancora in Costantino: «la consuetudine è quel diritto stabilito dalle usanze: esso è da considerarsi legge quando la legge manchi»[22]; nello stesso senso, per il Capitulare longobardicum contenuto nel Capitulare generale dell’anno 783, Pipino re d’Italia, ordinò: «quando manca la legge prevalga la consuetudine, ma nessuna consuetudine sia preferita alla legge»[23].

La Chiesa, pur ritenendo di proseguire soltanto per la strada aperta da Costantino, venne in realtà a sottoporre anche il contenuto della consuetudine, e più in generale della norma umana, a un controllo etico-religioso. La ratio che la consuetudine non deve vincere fu intesa come la rispondenza della norma umana alla veritas, vale a dire alla norma divina. Infatti già Tertulliano aveva ammonito che «Cristo, Signore nostro, si definì verità e non consuetudine»[24] e Agostino d’Ippona aveva stabilito: «la ratio e la verità sono da preferirsi alla consuetudine […] perciò, quando la verità si sia manifestata, la consuetudine le si subordini»[25]. Di conseguenza, poiché a una tale ratio deve sottostare anche la legge, questa non differisce sotto quest’aspetto dalla consuetudine: «a sua volta se la legge è stabilita dalla ragione, la legge sarà tutto ciò che dalla ragione sarà stabilito, solo in quanto ciò sia confacente alla religione, conveniente per la disciplina, e giovi alla salvezza»[26]. Siamo ormai agli antipodi rispetto ai principi del diritto romano: «nam consuetudo sine veritate vetustas erroris est»[27]. Non solo la conclusione di Cipriano diventa la concezione propria della Chiesa, non solo il tempo – in principio non decisivo per i Romani, attenti piuttosto alla conventio civium – diventa requisito essenziale della consuetudine, ma quest’esige anche un’approbatio che fu anche effettivamente richiesta, ma dai popoli ad autorità superiori, non riconoscendosi più nel popolo un potere normativo, e non dandosi in realtà più un popolo di cittadini, ma solo di sudditi e di fedeli che per altro mostravano d’essersi riorganizzati in comunità proprio con tali esigenze[28].

D’altra parte l’aequitas, che già nei testi giustinianei interpolati aveva assunto il significato di humanitas, benignitas, pietas, in epoca longobarda e poi carolingia venne collegata dalla Chiesa all’ordine superiore stabilito dalla iustitia Dei e assunse il compito di garantire l’armonia fra questa e la lex saeculi[29]. Autorevole testimone di tale cambiamento è Isidoro di Siviglia per il quale «aequus est secundum naturam iustus»[30]. Ma questa conformità alla natura è senz’altro intesa come conformità alla volontà di Dio: «secundum naturam equivale a secundum Deum»[31]. È la giustizia nell’unico senso nel quale la Chiesa può intenderla: «da un lato, una sorta di diritto costituzionale immobile e perpetuo, il diritto divino; dall’altro, il mobilissimo, elasticissimo diritto umano, pronto ad adeguarsi, per motivi pastorali, in forza della sua strumentalità, a quanto luoghi, tempi, motivazioni e circostanze [… richiedono. Prova ne sia il] rimbalzar continuo di termini-concetti come temperantia e relaxatio, segni d’una norma che deve servire agli uomini peccatori nel cammino verso la salvezza, a costo di arrivare perfino a vanificarsi»[32].

3. Il sovvertimento del continuum giuridico

Oltre all’esemplificazione della continuità giuridica nell’ambito poc’anzi scelto, urge ora didatticamente considerare la frattura della produzione normativa con il conseguente depauperamento identitario della comunità.

«Con la conquista del Nuovo mondo e la creazione dei domini e degli imperi coloniali dopo la scoperta dell’America nel 1492 [quale fu, per quanto concerne il diritto, l’atteggiamento dei colonizzatori?] Ogni generalizzazione sarebbe fuorviante, data la varietà enorme di situazioni e modelli, in parte derivanti dalla diversità profonda tra gli ordinamenti delle potenze dominanti. Solo recentemente la storiografia ha iniziato un’opera di scavo e inquadramento storico-ideologico della colonizzazione»[33], permettendo senza alcuna pretesa d’esaustività di proporre qualche distinzione[34].

L’atteggiamento degli Inglesi da un lato e quello dei popoli latini dall’altro furono, in via di principio, diversi.

Francesi, Spagnoli, Portoghesi, praticarono una politica di assimilazione – rimasta costante sino al termine dell’epoca coloniale – fondata sul duplice postulato del valore uguale di tutti gli uomini e della superiorità della civiltà europea su ogni altra. La Francia in particolare, con la costituzione del 1946, proclamò che gli indigeni divenuti cittadini francesi conservavano il proprio statuto personale, finché non vi avessero rinunciato. Sostanzialmente la situazione non fu diversa nel Congo belga, con la sola differenza che il principio del rispetto delle consuetudini indigene fu proclamato già dal 1885. Nel Congo belga, come nei possedimenti francesi, l’assimilazione fu considerata come il fine naturale dell’azione civilizzatrice, in quanto la madrepatria aveva direttamente assunto l’amministrazione del paese. Gli Inglesi diversamente praticarono una politica di amministrazione indiretta (indirect rule), ammettendo in genere che gli indigeni potessero, in base alle loro consuetudini, continuare a governarsi e ad amministrarsi da soli sotto l’ovvio controllo della potenza dominante; eccezione fu fatta per l’Australia ove il diritto inglese fu imposto.

La contrapposizione delle due politiche è netta sul piano del diritto pubblico. La formula della colonia, sottomessa direttamente all’amministrazione della madrepatria, è quella adottata dai paesi latini; mentre gli Inglesi preferirono orientarsi verso la formula del semplice protettorato. Le potenze coloniali, in modo abbastanza naturale, trasposero ovvero sui territori d’oltremare le concezioni centralizzatrici o decentralizzatrici applicate alla comunità nazionale in madrepatria.

Tuttavia, dietro queste formule di amministrazione, fu compiuta un’opera in larga misura identica sicché gli Stati nati dall’Impero britannico si considerano oggi paesi di common law, mentre gli Stati sorti dall’Impero francese, l’ex Congo belga, il Ruanda e il Burundi, gli antichi possedimenti spagnoli e portoghesi, aderiscono al sistema giuridico romano-germanico.

Le consuetudini delle popolazioni indigene hanno, in particolare, conosciuto una doppia evoluzione. Da una parte si è assistito alla ricezione di un diritto moderno per regolare tutti i problemi sorti dal passaggio a una nuova civiltà, ed alla cui soluzione le consuetudini tradizionali nulla avevano da offrire. Dall’altra si è assistito a una trasformazione del diritto consuetudinario nelle stesse materie cui esso forniva una regolamentazione completa, o perché tale diritto non veniva considerato abbastanza civile dalla potenza colonizzatrice, o perché esso fu costretto ad adattarsi ai mutamenti avvenuti in altri campi.

Le potenze colonizzatrici cioè non elaborarono semplicemente un nuovo diritto per gli ambiti a cui la consuetudine non si era mai estesa, e per i quali questa non offriva una base adeguata per una regolamentazione divenuta indispensabile, bensì esse esclusero l’applicazione del diritto consuetudinario in numerosi campi in cui esso esisteva, ma nei quali le sue regole non sembravano accettabili ai governi europei. Nell’Africa francese, per esempio, furono presi numerosi provvedimenti per liberare gli individui dalle servitù, o per migliorare la condizione della donna, ma queste disposizioni spesso rimasero lettera morta. Nell’Africa inglese si permise inoltre ai giudici – seppur con moderazione – di disattendere le regole consuetudinarie, quando queste apparissero loro contrarie alla giustizia, all’equità o alla coscienza.

Affrontando ora la sorte conosciuta dal diritto consuetudinario nei campi in cui si ammise potesse restare in vigore, bisogna rammentare che esso non è refrattario a ogni evoluzione. Ancor prima della colonizzazione il diritto consuetudinario si modificò talora quando si costituirono nuovi raggruppamenti politici, e ancora per l’influenza dell’Islam o del Cristianesimo; per esempio la famiglia in vari paesi smise di essere di tipo matriarcale e divenne patriarcale. L’evoluzione doveva tuttavia precipitare con le strutture e le nuove idee importate dai colonizzatori. L’introduzione di un’economia monetaria, l’urbanizzazione, la creazione del mercato del lavoro, la diffusione dell’istruzione, dell’individualismo e delle idee democratiche, l’accresciuta facilità delle comunicazioni, il contatto con gli europei indussero molti indigeni a interrogarsi sul fondamento delle regole tradizionali.

Il diritto tradizionale, che esprimeva sulle fattispecie più diverse la concezione dell’ordine sociale a cui aderiva il villaggio o la tribù, non riuscì ad adattarsi con la necessaria rapidità al tipo di società a esso estranea che s’imponeva tramite la colonizzazione. Ancora un esempio: secondo le concezioni tradizionali il lavoro era, più che un mezzo per guadagnarsi da vivere, un modo di vita, stabilito in comunione con le forze della natura e l’osservanza di specifici rituali religiosi; ora diveniva un contratto con cui ci si impegnava a lavorare per un estraneo per guadagnare un salario. Tutto il diritto societario, cambiario, marittimo e contrattuale nel suo insieme fu importato dall’Occidente. Certo la maggioranza della popolazione autoctona continuò a vivere come sempre aveva fatto, ma un numero sempre crescente pose in discussione le istituzioni e le pratiche consuetudinarie caratterizzanti la propria società.

Per salvare il sistema giuridico tradizionale non fu sufficiente proclamare il principio del rispetto delle consuetudini indigene. Tale affermazione risultò illusoria giacché non si diede al diritto consuetudinario la possibilità di sopravvivere non chiarificando, riformando, sistematizzando i costumi; non si diedero al diritto consuetudinario i mezzi per affiancarsi al diritto europeo. Le potenze colonizzatrici proclamarono sì, in via di principio, il loro rispetto per le consuetudini, ma le misure intraprese per assicurare l’applicazione del diritto consuetudinario falsarono radicalmente tale applicazione.

4. Non tacere le verità che danno senso alla vita

Tornando ora all’accennata contemporanea occidentale pretesa di esportare, manu militari, la forma di governo democratica in paesi che essa reputano culturalmente estranea, «non c’è alcun dubbio che nella modernità solo i governanti democraticamente eletti siano quelli che possono rivendicare la piena legittimità del loro potere e questo per il fatto che la democrazia è ormai universalmente considerata come l’unica forma di governo naturalmente giustificabile. Questa osservazione, in sé e per sé assolutamente scontata, racchiude però un paradosso, dato che nessun’epoca, come la nostra, ha eroso l’idea che esista un’unica etica naturale, obiettivamente condivisibile da tutti gli uomini, indipendentemente da quanto li si possa differenziare sul piano religioso, politico, culturale. Il paradosso si può sciogliere in un solo modo, interpretando in modo rigidamente procedurale la logica della democrazia; il suo primato naturale dipenderebbe pertanto dal fatto che essa costituirebbe l’unico regime politico eticamente neutrale, e quindi capace di far convivere al proprio interno visioni del mondo dal punto di vista dei valori non solo diverse, ma addirittura contrapposte. Ma in tal modo se si riesce […] a giustificare la valenza universale che per molti possiede il modello democratico, gli si toglie nello stesso tempo però sangue e linfa. È che ogni regime politico […] ha bisogno di un’animazione valoriale; ma una democrazia meramente procedurale, volta formalmente a neutralizzare i valori conflittuali presenti nel tessuto sociale, convinta di avere il potere di conferire loro l’unico, possibile, legittimo fondamento, non può, pena la contraddizione, rinviare a sua volta a previ valori fondanti»[35].

«Se è vero – come scriveva Maritain – che la democrazia, come movimento promotore della libertà e della dignità delle persone, “è sorta nella storia umana come una manifestazione temporale dell’ispirazione evangelica” e che sotto questo profilo essa è strettamente “legata al cristianesimo”[36], è peraltro vero che tra essa e il cristianesimo il rapporto è storico e non dogmatico. E che oggi anche il rapporto storico tende a incrinarsi, nei limiti in cui la democrazia del nostro tempo sembra mettere tra parentesi il suo fondamento personalistico, per accentuare il suo fondamento formalistico»[37]. «L’interculturalità [… dunque, sembra così] rappresentare oggi una dimensione inevitabile della discussione sulle questioni fondamentali dell’essenza dell’essere uomo, che non può essere condotta né del tutto all’interno del Cristianesimo né puramente all’interno della tradizione razionalista occidentale. Infatti, entrambi si considerano universali in base alla propria percezione di sé e aspirano a d esserlo anche de iure. Devono però riconoscere de facto che sono accettati e addirittura comprensibili sola per una parte dell’umanità»[38].

Ma «se nelle sue singole, specifiche etnie l’Europa manifesta una straordinaria varietà, nei suoi valori costitutivi l’Europa si è manifestata come un grandioso laboratorio metaculturale. L’omologazione del pianeta sui parametri culturali europei non va vista però come l’effetto di una politica di imperialismo culturale posta in essere dal vecchio Continente (magari con forza coattiva), ma la riprova storicamente evidente dell’unità reale del genere umano, di cui la modernità ha preso consapevolezza. L’Europa non può essere rappresentata come una cultura prodotta da uno spazio geografico precostituito […] ma come uno spirito che ha creato il proprio spazio geografico e che continua ancora a crearlo»[39]. Ovvero «la fede cristiana e la razionalità laica occidentale […] si deve dirlo senza falso eurocentrismo […] determinano la situazione globale come nessun’altra delle forze culturali. Ciò non significa però che sia lecito accantonare le altre culture come un’entità in qualche modo trascurabile. Ciò sarebbe una hybris occidentale, che pagheremmo cara e in parte già paghiamo. È importante per entrambe le grandi componenti della cultura occidentale acconsentire a un ascolto, a un rapporto di scambio anche con queste culture. È importante accogliere nel tentativo d’una correlazione polifonica, in cui esse si aprano spontaneamente alla complementarietà essenziale di ragione fede, cosicché possa crescere un processo universale di chiarificazione, in cui infine le norme e i valori essenziali in qualche modo conosciuti o intuiti da tutti gli esseri umani possano acquistare nuovo potere di illuminare, cosicché ciò che tiene unito il mondo possa nuovamente conseguire un potere efficace nell’umanità»[40].

«Se vogliamo un mondo più fraterno, dobbiamo educare le nuove generazioni a «riconoscere, apprezzare e amare ogni persona al di là della vicinanza fisica, al di là del luogo del mondo dove è nata o dove abita» (Enc. Fratelli tutti, 1). Il principio fondamentale del “conosci te stesso” ha sempre orientato l’educazione, ma è necessario non tralasciare altri principi essenziali: “conosci il tuo fratello”, per educare all’accoglienza dell’altro (cfr Enc. Fratelli tutti; Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019); “conosci il creato”, per educare alla cura della casa comune (cfr. Enc. Laudato si’) e “conosci il Trascendente”, per educare al grande mistero della vita. Ci sta a cuore una formazione integrale che si riassume nel conoscere sé stessi, il proprio fratello, il creato e il Trascendente. Non possiamo tacere alle nuove generazioni le verità che danno senso alla vita»[41].

Ludovico Allegretti

ludovico.allegretti@unisanpaolo.org

6 ottobre 2021

[1] Cfr. P. Grossi, L’ordine giuridico medievale, Roma-Bari 1995, pp. 5; 20.

[2] D. 1. 3. 37 (Paulus, Libro I quaestionum).

[3] Mirabile la sintesi dell’interagire tra consuetudine e legge offerta da A. Padoa Schioppa, Storia del diritto in Europa. Dal medioevo all’età moderna, Bologna 2007, pp. 192-197.

[4] F. Calasso, Medio Evo del Diritto. I – Le Fonti, Milano 1954, pp. 26 s.

[5] M. Sadat, La decisione più saggia per gli Stati Uniti è stata lasciare l’Afghanistan, 1 settembre 2021, in https://www.repubblica.it/dossier/esteri/racconti-afghani/2021/09/01/news/la_decisione_piu_saggia_per_gli_stati_uniti_e_stata_lasciare_l_afghanistan_-316146979/ (consultato il 5 ottobre 2021): «L’Afghanistan si trova ora in una situazione di incertezza. Da una parte, c’è la decisione di una superpotenza e dall’altra i milioni di volti spaventati degli afghani […] che non sanno che cosa accadrà né oggi, né domani, mentre la sola cosa certa è che il movimento dei talebani ha preso il controllo di quasi tutto il Paese in 11 giorni ed è entrato a Kabul il 15 agosto».

[6] Idem, Usa addio, l’Afghanistan si conferma cimitero degli imperi”, 31 agosto 2021, in https://www.repubblica.it/dossier/esteri/racconti-afghani/2021/08/31/news/usa_addio_l_afghanistan_si_conferma_cimitero_degli_imperi_-316010678/ (consultato il 5 ottobre 2021).

[7] M. Sechi, “Ecco le ragioni della caduta dell’Afghanistan”. Intervista al generale Battisti, 13 agosto 2021, in https://www.agi.it/estero/news/2021-08-13/ragioni-caduta-afghanistan-talebani-intervista-generale-battisti-13570547/ (consultato il 5 ottobre 2021).

[8] C. R. Bruno (video di), Afghanistan, la fuga da Kabul dell’ex colonnello: Se i talebani mi avessero trovato sarei morto”, settembre 2021, in https://www.dailymotion.com/video/x83uujr (consultato il 5 ottobre 2021).

[9] Afghanistan, tornati gli ultimi militari italiani. Il ministro Guerini: “Orgoglio e gratitudine”. Al-Quaeda si congratula con i taleban: “Un esempio”, «La Stampa», Esteri, 31 agosto 2021, in https://www.lastampa.it/esteri/2021/08/31/news/afghanistan-blinken-finita-la-missione-militare-ora-la-diplomazia-i-taleban-la-sconfitta-usa-e-una-lezione-per-gli-altri-invasori-1.40651550 (consultato il 5 ottobre 2021).

[10] Cfr. D. 1. 1. 1. 2 (Ulpianus, Libro primo institutionum); D. 1. 1. 6 (Ulpianus, Libro primo institutionum). Si veda inoltre V. Arangio-Ruiz, Storia del Diritto Romano, Napoli 1994, p. 133.

[11] D. 1. 2. 2. 12 (Pomponius, Libro singulari enchiridii): «proprium ius civile, quod sine scripto in sola prudentium interpretatione consistit».

[12] Cfr. Arangio-Ruiz, Storia del…, pp. 239; 241. Lo studioso suggerisce: «traduci: va applicata come se fosse una legge» (ibidem, p. 242).

[13] Ibidem, p. 349; si vedano pure le pp. 322; 377. Sulla massima per cui Princeps legibus solutus est – da interpretare non come facoltà d’abrogare o riformare le leggi, ma come esenzione dall’osservanza di talune norme di diritto privato – si veda ibidem, p. 241.

[14] Cfr. ibidem, pp. 139; 141; 167.

[15] D. 1. 3. 32 (Iulianus, Libro LXXXIIII digestorum): «ipsae leges nulla alia ex causa nos teneant, quam quod iudicio populi receptae sunt, merito et ea, quae sine ullo scripto populus probavit».

[16] C. 8. 52 (53), 2 (Imp. Constantinus A. ad Proculum); cfr. già D. 1. 3. 39 (Celsus, Libro XXIII digestorum): «consuetudinis ususque longaevi non vilis auctoritas est, verum non usque adeo sui valitura momento, ut aut rationem vincat, aut legem».

[17] Il feudo è una categoria intermedia tra il diritto privato e il diritto pubblico in quanto che ai privati vengono conferiti poteri pubblici (cfr. F. Calasso, Gli ordinamenti giuridici del rinascimento medievale, Milano 1965, pp. 72-87).

[18] Cfr. D. 1. 3. 32 (Iulianus, Libro LXXXIIII digestorum).

[19] Cfr. D. 1. 3. 35 (Hermogenianus, Libro I iuris epitomarum).

[20] Cfr. Calasso, Medio Evo…, pp. 181-199.

[21] Agostino d’Ippona, Epistula conpresbytero Casulano, 36, 1, 2: «in his enim rebus, de quibus nihil certi statuit scriptura divina, mos populi Dei vel instituta maiorum pro lege tenenda sunt».

[22] Isidoro di Siviglia, Etymologiarum sive originum libri XX, 2, 10, 2: «consuetudo autem est ius quoddam moribus institutum, quod pro lege suscipitur, cum deficit lex». Graziano commenta le affermazioni isidoriane: «Cum itaque dicitur: «non differt, utrum consuetudo scriptura, vel ratione consistat», apparet, quod consuetudo partim est redacta in scriptis, partim moribus tantum utentium est reservata. Quae in scriptis redacta est, constitutio sive ius vocatur, quae vero in scriptis redacta non est, generali nomine, consuetudo videlicet, appellatur» (D. 1 c. 5 Gr. p.).

[23] PIPINO, rex Italiae, Capitulare longobardicum, in MGH, Regum Merowingorum, regum Francorum imperatorum capitularia, 1, p. 47, 2, 10: «ubi lex deest, praecellat consuetudo, et nulla consuetudo superponatur legi».

[24] Q. S. F. Tertulliano, De virginibus velandis, 1, 1: «Dominus noster Christus veritatem se, non consuetudinem, cognominavit».

[25] Agostino d’Ippona, De baptismo, 3, 4, 5; 3, 3, 6: «ratio et veritas consuetudini praeponenda est […] itaque veritate manifestata cedat consuetudo veritati».

[26] Isidoro di Siviglia, Etymologiarum sive…, 2, 10, 3: «porro si ratione lex consistat, lex erit omne iam quod ratione consisterit, dumtaxat quod religioni congruat, quod disciplinae conveniat, quod saluti proficiat».

[27] Cipriano di Cartagine, Epistola S. Cypriani ad Pompeium contra epistolam Stephani, in De haereticorum baptismate, 1, 9.

[28] Cfr. Calasso, Medio Evo…, pp. 197-208.

[29] Si veda sull’evoluzione del concetto dell’aequitas ibidem, pp. 331-337; P. SILLI, Mito e realtà dell’aequitas christiana; contributo alla determinazione del concetto di aequitas negli atti degli scrinia costantiniani, Milano 1980; Grossi, L’ordine…, pp. 175-182; 210-216.

[30] Isidoro di Siviglia, Etymologiarum sive…, 10, 7.

[31] Calasso, Medio Evo…, p. 336.

[32] Grossi, L’ordine…, p. 210.

[33] Padoa Schioppa, Storia del…, p. 244.

[34] Cfr. L’Europa e gli «Altri». Il diritto coloniale fra Otto e Novecento, in «Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno», 33/34 (2004-2005).

[35] F. D’Agostino, Parole di giustizia, Torino 2006, p. 43.

[36] J. Maritain, Cristianesimo e democrazia, Milano 1977, p. 30. «Lo stato d’animo democratico non solo deriva dalla ispirazione evangelica, ma non può sussistere senza questa […] L’avvento duraturo di uno stato d’animo democratico e di una filosofia democratica della vita richiede che le energie evangeliche compenetrino l’esistenza profana» (ibidem, p. 53).

[37] D’Agostino, Parole di…, p. 45.

[38] J. Ratzinger, Ragione e fede. Scambio reciproco per un’etica comune, in J. Habermas – J. Ratzinger, Ragione e fede in dialogo. Le idee di Benedetto XVI a confronto con un grande filosofo, ed. G. Bosetti, Venezia 2005, pp. 76 s.

[39] D’Agostino, Parole di…, pp. 78 s.

[40] Ratzinger, Ragione e…, p. 81. Chiosa il regnante Pontefice: «La globalizzazione economica, i cui limiti sono sempre più evidenti, non dovrebbe portare ad una omogeneizzazione culturale. Se prendiamo parte a un processo in cui rispettiamo le priorità e gli stili di vita originari e in cui le aspettative dei cittadini sono onorate […] sarà il popolo stesso che progressivamente si farà carico di sé, diventando l’artefice del proprio destino» (Francesco PP, Discorso alle autorità, società civile e Corpo diplomatico in occasione del viaggio apostolico in Mozambico, Madagascar e Maurizio, 7 settembre 2019, in https://www.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2019/september/documents/papa-francesco_20190907_autorita-madagascar.html (consultato il 5 ottobre 2021).

[41] Francesco PP, Discorso ai rappresenti delle religioni sul tema “Religions and Education: towards a Global Compact on Education”, 5 ottobre 2021, in https://press.vatican.va/content/salastampa/it/bollettino/pubblico/2021/10/05/0631/01347.html#ITA (consultato il 5 ottobre 2021).